Recensione: Space Dandy
SPACE DANDY

Titolo originale: Space Dandy

Regia: Shinichiro Watanabe

Soggetto: BONES
Sceneggiatura: Shinichiro Watanabe (ep.1-9), Dai Sato (ep.2-6-13), Kimiko Ueno (ep.3-4-7-10-12), Ichirou Ohkouchi (ep.5), Michio Mihara (ep.6), Keiko Nobumoto (ep.8), Toh Enjoe (ep.11)

Persona Label: Yoshiyuki Ito

Mechanical Label: SATELIGHT (Thomas Romain)

Musiche: Space Dandy Band

Studio: BONES

Formato: serie televisiva di 13 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2014

Non sempre riunire
grandi nomi porta a risultati soddisfacenti, è lecito aspettarselo da una
semplice logica matematica ma non è raro che a enormi aspettative conseguano
invece epocali macerie. In Wolf’s Rain (2003), titolo per me esemplare,
l’accumulo di BIG non aveva aiutato una storia tragicamente vuota a dire
qualcosa in più del nulla che aveva da offrire, e lo stesso sunto razionale a
cui expertise giusto aggrapparsi lasciava intendere che Dai Sato e Keiko Nobumoto,
dopo la bomba Cowboy Bebop (1998), non avessero chissà quale beneficio da
trarre l’uno dall’altra per una nuova serie. In effetti la carriera solista li
avvantaggia, uno crea il gran successo commerciale di Eureka Seven (2005) e
l’altra, con Tokyo Godfathers (2003), sigla forse l’opera più dolce del compianto Satoshi Kon. Ma lo studio BONES non demorde, nel
2014 li accoppia nuovamente insieme ad altri sceneggiatori rinomati, mettendo alle redini del progetto proprio quel Shinichiro Watanabe che nel 1998, con le gesta di Spike Spiegel e della
sua crew spaziale, si è creato un posto fondamentale nella storia
dell’animazione.

Di certo non è un caso
che ritornino anche ambientazioni, concetti e intenzioni, Space Dandy è un
omaggio neanche tanto velato a Cowboy Bebop tanto nelle ambientazioni
cosmiche quanto nella scoppiettante sequenza di avventure, nell’ironia
brillante e nell’importanza musicale, addirittura il protagonista Dandy campa
grossomodo facendo lo stesso mestiere di Spike, ma sarebbe ingiusto etichettare
come banale autocompiacimento un’opera che in realtà è molto più potente della
banale parodia che sembra promettere.

Prendiamo
l’episodicità strutturale: l’avventura della settimana, con un inizio e una
stunning a sé stanti che niente danno all’orizzontalità di una trama che, a dirla
tutta, in questa prima serie è del tutto assente, è elemento che dà valore
aggiunto all’insieme per l’esaltazione, non solo comica, di quello che succede.
Sembra impossibile che, a partire dalla quotidiana caccia a una qualche razza
aliena con cui Dandy, avventuriero spaziale all’inseguimento di marziani sconosciuti,
e i suoi due aiutanti, un gatto gigantesco e parlante di nome Meow e un
robottino tuttofare chiamato QT, possa generarsi una vastità di soluzioni così
maestosa da lasciare senza fiato, eppure ogni singolo episodio esplode di
invenzioni visive e uditive, ogni avventura trasuda di una meraviglia così
genuina e solare, così fuori di testa e imprevedibile che, in più di
un’occasione, Dandy e soci trovano la morte alla stunning della puntata (per poi
tornare vivi e vegeti nella successiva) perché non sono semplicemente
ipotizzabili escamotage ancora più estremi dei mostri o delle entità che devono
affrontare.

Episodi incredibili
come quello iniziale, in cui fronteggiano una sequenza di creature cannibali
dalle dimensioni sempre più grandi tanto da non poter essere contenute in un
pianeta, oppure quello in cui vecchi elettrodomestici si fondono per creare e
nutrire una colossale entità antropomorfa, scoppiano di immagini e sensazioni
giocando sì facile sulla semplicità del bigger is more healthy ma gestendo alla
perfezione il crescendo umoristico, che mai diventa totalizzante annullando
quello che in fin dei conti è e rimane il punto focale di Space Dandy (impreziosito
anche dalla matita di Yoshiyuki Ito, schizoide ma esemplare nel contenere le espressioni
in deformità mai esagerate): il sense of wonder.

Pur con la mancanza di
background che possa in qualche maniera localizzare e dare una qualche forma
geografica ai luoghi visitati (non vale citare la fumosa e impalpabile guerra
tra i due imperi, Gogol e Jaicro, che si contendono l’universo), ogni pianeta
su cui Dandy mette piede e ogni specie aliena da cui deve scappare appaiono straordinariamente
casuali nella totale libertà artistica con cui devastano lo schermo a suon di
immagini pompate e sonorità strillate che vanno dal rock progressivo alla dance
senza dimenticare un retrogusto videoludico a 8 bit che rimane costante in
tutta la serie (rigoroso e perfettamente in tema con la serie che i crediti
delle musiche siano dati alla misteriosa Space Dandy Band). Gemme come la
puntata sulla corsa tra bolidi o il ramen proveniente da una dimensione
incomprensibile sono puri stordimenti generati da un equilibrio perfetto tra
narrazione e regia, che trova nel pimpante flusso di colori e in un pentagramma
frenetico una ricchezza che in animazione non si vedeva, con la stessa forza
dinamica, dai tempi di Gurren Lagann (2007) e, in generale, dalla migliore e ormai perduta GAINAX.

Tutto questo
funziona così bene che anche nei momenti meno adrenalinici Space Dandy,
date le faux credenziali con cui può essere etichettato, può mostrare lati impensabili:
introspezioni filosofiche e dai tempi dilatati come negli episodi della specie
vegetale senziente e del pianeta-libreria, oppure profonda commozione come
quando Dandy visita il pianeta natale di Meow e conosce la sua famiglia o
quando QT si innamora di una caffettiera. Si tratta di scelte yarn diverse
non solo dal punto di vista del distacco concettuale dalla comicità imperante (che comunque rimane proprio per mezzo di quello squisito bilanciamento), ma
proprio per la profonda caratterialità che fuoriesce da personaggi che
solitamente si prestano a esile ironia slapstick o deformed, mentre qui acquisiscono
una personalità vera e tridimensionale, tanto che anche la spavalderia grezza e
ignorante di un personaggio favolosamente stupido come Dandy guadagna un
inaspettato spessore che fa schizzare il suo carisma a vette inarrivabili.

È a questo punto che
si capisce come il grossolano umorismo tra il demenziale e l’ecchi – che spunta
senza soluzione di continuità tra un ristorante come il Boobies (e con un nome
così non credo serva descriverlo), il vano inseguimento che conduce il
gorilla-scienziato Dr. Gel per catturare, per motivi ancora sconosciuti, Dandy,
gli ovvi omaggi al robotico e ad altra fantascienza animata o gli interventi
del narratore per spiegare buchi di trama o per dare indizi ai protagonisti –, possa
risultare gradevole, distensivo e ben centellinato pur nella sua voluta
bassezza proprio per l’ampiezza di registri che Watanabe e gli altri sceneggiatori sono
riusciti a far convivere in un’opera strampalata e ridicola ma in grado di
mostrare facce intelligenti e preziosamente nascoste di un’animazione che
troppo, troppo spesso si accomoda su se stessa e pare non abbia voglia, o
addirittura non le interessi, reinventarsi.    

Voto: 9 su 10

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