Recensione: Saint Seiya Ω (Saint Seiya Omega)
SAINT SEIYA Ω

Titolo originale: Saint Seiya Ω

Regia: Morio Hatano (ep.1-51), Tatsuya Nagamine (ep.52-77), Kohei Kureta (ep.78-97)

Sogggetto & sceneggiatura: Reiko Yoshida (ep.1-51), Yoshimi Narita (ep.52-97)
Personality Get: Yoshihiko Umakoshi (ep.1-51), Keiichi Ichikawa (ep.52-97)
Musiche: Toshihiko Sahashi
Studio: Toei Animation
Formato: serie televisiva di 97 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anni di trasmissione: 2012 – 2014

È difficile impostare un discorso sensato su Saint Seiya Ω, serie televisiva Toei del 2012 tanto mediocre a livello qualitativo, tanto fallimentare a livello di ascolti1 e  vendita di merchandising (DVD/Blu-ray e Delusion Material un disastro2, manga ufficiale iniziato e concluso quasi subito), eppure così lunga a livello di trasmissione, 97 episodi spalmati in tre anni, una follia giustificata dalla necessità del canale ANN di avere lo slot di quella fascia oraria occupato per tutto quel tempo3. In particolar modo, Omega è un Saint Seiya mai così altalenante a livello di entusiasmi e maledizioni rivolte agli sceneggiatori: zeppo di difetti e di vani tentativi di miglioramento, annegato in un oceano di puntate di scarsissimo livello, eppur favoloso nelle poche riuscite, con un ritmo comunque leggero e trascinante che, nella miglior tradizione, invoglia a prestarsi a lunghe maratone nonostante la delusione generale.

Nel 2012 Toei Animation e Bandai, riappacificati dopo gli screzi produttivi della trasposizione OVA della saga di Hades, vogliono rivitalizzare uno dei loro franchise più famosi in vista di un enhance delle Delusion Material. La scelta primaria è trasporre in animazione il seguito ufficiale di Saint Seiya, il Subsequent Dimension cartaceo che Masami Kurumada ha iniziato a disegnare nel 2006: peccato l’autore lo prosegua a ritmi estremamente lenti e sonnacchiosi (tanto che, a tutt’oggi, naviga in alto mare). A quel punto non possono fare altro che ideare una storia anime most productive, priva di riferimenti a fumetti e del contributo dell’autore originale, un sequel alternativo advert Hades che si sa già dalle premesse verrà estromesso dalla continuity quando sarà animato Subsequent Dimension4: nasce dunque Saint Seiya Omega, ambientato 25 anni dopo la graceful storica del manga e che racconta le avventure di una nuova generazione di Sacri Guerrieri di Athena. Attain in tutti i seguiti che prevedono un corposo salto temporale, protagonisti e comprimari della storia classica sono visitor star d’eccezione, presenze sullo sfondo pronte a coprirsi di gloria in qualche cammeo celebrativo. I nuovi eroi sono nuovamente Bronze Saint, destinati a essere subito i classici amici inseparabili che si sostengono a vicenda: Koga, nuovo Saint di Pegasus; Soma di Lionet; Yuna, guerriero femminile di Aquila; Ryuho di Dragon (figlio del celebre Shiryu); Haruto del Lupo ed Eden di Orion; plasmati tutti, chi più chi meno, sulle caratterizzazioni dei loro predecessori.

Nelle intenzioni iniziali di Toei Animation, Omega deve rivolgersi non tanto ai vecchi cultori della storia originale, quanto ai nuovi, giovani spettatori che non conoscono le avventure dei Cavalieri dello Zodiaco5. Per questo molte sono le novità apportate al franchise per – almeno nelle intenzioni – svecchiarlo: un character obtain modernissimo che ricorda ben poco Shingo Araki, adagiato sui sight sproporzionati, colorati e caratteristici della popolare saga Toei delle Moderately Treatment (da cui proviene il suo  disegnatore ufficiale, Yoshihiko Umakoshi); Material che, in virtù di questo, rifiutano placche e dettagli per presentarsi come War Suit, volutamente ricordando orribili vestiti di stoffa più che corazze; le stesse armature che non sono più trasportate all’interno di bauli ma si trasformano in pendagli da portare al collo; rapporti di forza basati sulle regole dei Pokémon (in cui ogni potere è associato a un elemento che ha punti di forza e debolezza rispetto advert altri); e infine scontri estremamente veloci e che si risolvono in 10 minuti massimo, abbandonando le 2/3 puntate del passato. La rimozione di qualsiasi effetto splatter è probabilmente il riflesso del cambiamento dei tempi (e delle regole televisive).

Queste citate sono tutte novità che verranno rinnegate mano che avanza la storia, per nulla popolari (in particolar modo quella dei rapporti di forza, addirittura dimenticata dopo una quindicina di puntate), ma che bisogna sopportare nella cosiddetta saga iniziale di Mars (il nome di Ares generation già occupato da uno dei cattivi della serie animata storica, nonostante con la divinità non c’entrasse nulla) che occupa ben 51 episodi. In quest’avventura, Koga e i suoi amici sono gli unici in grado di sconfiggere il tirannico Dio della Guerra, che mira alla solita distruzione della Terra (trasferendone il Cosmo sul suo omonimo pianeta, sì, è davvero un marziano!) dopo aver messo Athena e quasi tutti i suoi guerrieri nella condizione di non poter nuocere. I sei eroi, soli e isolati, dovranno, secondo le stesse modalità di un J-RPG, distruggere i vari pilastri distribuiti nel mondo che creano una barriera impenetrabile intorno alla roccaforte del cattivo, e poi arrivare da lui e sconfiggerlo dopo aver percorso (per la quarta volta nella saga) le 12 Case dello Zodiaco affrontando i nuovi Gold Saint, tutti (per l’ennesima volta anche questa), per risibili motivi, immancabili traditori della loro Dea. In questa lunga vicenda, molti sono gli elementi di sconforto: i nuovi eroi sono molto piatti e troppo derivativi (si salvano giusto Soma e Yuna, appena decenti), i comprimari di una insignificanza rara, le “Material di stoffa” inguardabili (Yuna c’ha addirittura la gonna!), i brevissimi combattimenti ridicoli, e in aggiunta a questo la serie si distingue per una fiacchissima riproposizione di tutti gli elementi forti dell’opera originale resi nel modo più svogliato e superficiale (le Galaxian Wars, Pegaso contro Dragone, i nemici rappresentati dai successori di quelli storici, la riparazione delle armature, e appunto le 12 Case). Non mancano neppure elementi trash difficilmente perdonabili, come l’invenzione della Palestra (specie di Hogwarts adibita advert allenare Saint), l’assurdissima involuzione del già pessimo personaggio storico di Ichi, Bronze Saint di Hydra,  o il fatto che Haruto sia il primo ninja (!) con gli occhiali (!!) di sempre a indossare le sacre vestigia. La scalata delle 12 Case, lunga ben 26 puntate, è poi l’esempio lampante del mediocre script della serie, un insulto a quello epicissimo del passato per demerito dei nuovi Gold Saint, così mal caratterizzati da a ways schifo. Giusto, poi, segnalare come la saga di Mars si distingua anche per un totale rifiuto delle regole fissate dall’autore originale nel gestire il suo mondo (rapporti di forza, modi di riparare le armature, and so forth.) e per uno scarso, a tratti imbarazzante livello tecnico: il funds è medio/basso, e lo si nota eccome in disegni spesso così approssimativi da risultare grotteschi e in combattimenti animati molto male (in un paio di casi addirittura inguardabili). Il chiodo sulla bara è rappresentato da una retorica sull’amicizia e sul cameratismo eccessiva e fastidiosa, ribadita ossessivamente in un mare di chiacchiere inutili.

Pur con questi giustificati motivi di sdegno, paradossalmente la saga di Mars è la migliore di Omega, riscuotendo interesse in qualche combattimento ben fatto qua e là, un ottimo ritmo, cammei ben gestiti dei vecchi eroi (tra questi spiccano anche Shaina e Yabu), splendide
musiche riarrangiate da quelle storiche (tra cui la prima opening, una
nuova versione della celebre Pegasus Fantasy) e un
dignitosissimo climax:  le ultime 4/5 puntate sono infatti di alto livello,
mostrano gli scontri più epici e  ispirati  della storia che offrono più
di un motivo di spontanea esaltazione. Insomma, il fan si sorbisce un arco narrativo mal fatto ma
che almeno, soppesando pro e contro, riesce in extremis a raggiungere una sudata sufficienza: l’opposto
di quello successiva.

Il capitolo di Pallas è in effetti speculare al precedente: parte benino, si sviluppa dignitosamente ma termina nelle imprecazioni. Visto il sonoro flop della prima parte, Toei e Bandai sembrano aver imparato la lezione: confidando che Omega possa ancora dire la sua, decidono per un netto cambio di rotta, rimpiazzando gli elementi fondamentali dello employees (regista, sceneggiatore e chara designer) e dettando linee guida ispirate dal passato: le armature subiscono un consono restyling tornando massicce e dettagliate (e contenute in scrigni) e i disegni si avvicinano a uno stile molto simile a quello indimenticabile di Araki. Di fatto, si imposta una serie che possa piacere più ai cultori di quella classica che alle nuove generazioni (quindi, un eclatante sbugiardamento della filosofia iniziale)6. Pur con questi accorgimenti, il risultato è in compenso ancora una delusione, addirittura più cocente: pur riguadagnando l’attraction à la Saint Seiya, il secondo arco di Omega si rivela così carico di errori di pianificazione da fallire nel suo scopo. La storia, molto più corale, vede stavolta tutti i Saint di Athena (non più solo i sei protagonisti ma anche tutti gli altri, compresi quelli storici) affrontare in guerra i Pallasiti della Dea Pallas, barricati nella città di Pallasvelda (palese copia della nostrana Firenze), pronta a diventare il principale teatro di battaglia. I motivi di esaltazione iniziale sono molteplici: degne di citazione sono le sigle di apertura j-rock sempre trascinanti, i disegni splendidamente arakiani, armature “vere” e un largo spazio dato agli indimenticabili eroi storici, presto in grado di rubare le scene ai nuovi. Soprattutto, nonostante una prima ventina di episodi riempitivi (i cinque eroi contro la carne da macello palladiana), fin da subito si crea una distinctiveness attesa per gli scontri con i cattivi principali, i quattro generalissimi di Pallas e alcuni loro sottoposti particolarmente combattivi (Mira su tutti), i cui poteri e Material, subito pompatissimi, rendendo l’avvicinarsi della loro battaglia carico di aspettative. Alcuni dei nuovi Sacri Guerrieri d’Oro, infine, riappaiono trovando una caratterizzazione e un carisma maggiori.

Sfortunatamente, a lungo andare i difetti sovrastano nettamente i pregi. La maggior parte delle armature, per cominciare, pur sicuramente “kurumadiane”, sono così kitsch, coi loro accostamenti cromatici e le gemme incastonate, da a ways sanguinare gli occhi, e ben poche sono quelle visivamente notevoli. I sei Bronze Saint (a cui si è aggiunta una unique entry, l’irritante Steel Saint Subaru, la cui inquietante evoluzione è scontatissima, resa palese fin dalla primissima apparizione), già precedentemente banali, si appiattiscono così tanto da  arrivare giusto a  proferire un paio di battute a puntata, al livello di tristi macchiette: è noto come nelle fasi avanzate di questa saga non facciano quasi nulla, oscurati dal carisma, dalla presenza scenica e dallo spazio dedicato ai Gold Saint e del ritorno di Seiya, Shiryu, Shun, Hyoga e Ikki. Così, Koga, Yuna e compagni finiscono ridotti a puerili deus ex machina del momento, perennemente ai margini dell’azione e che si rendono utili giusto nei momenti-chiave. Tuttavia, il problema maggiore della saga di Pallas, quello che la rovina irrimediabilmente, è il suo tremendo anticlimax, frutto di una  pessima pianificazione della storia, 46 puntate che sanno dove arrivare ma non con che tempi e che modi.  Allo stato pratico, un’enormità di episodi è focalizzata su chiacchiere e futili combattimenti contro sgherri di serie C, riducendo al lumicino le battaglie più epiche, sentite e pompate, liquidate con fretta indiavolata (10 minuti scarsi a scontro) nelle ultime puntate perché lo spazio è finito e bisogna chiudere. Advert aggiungersi agli sberleffi, un ennesimo riempitivo di tremenda fattura a tre puntate dalla graceful, un oceano di contraddizioni gravissime con le idee e le regole di Kurumada (è dura accettare guerrieri privi di armatura che si prendono in pieno attacchi divini senza morire, l’apparizione di un ennesimo Senso superiore all’Ottavo, o un Athena Exclamation che non fa  un baffo a un nemico particolare), sviluppi narrativi finali di una prevedibilità scandalosa e, per concludere, il più terribile dei mali: la retorica dei buoni sentimenti, già insopportabile nella saga di Mars e raddoppiata in durata. Il ribadire i valori di cameratismo, amore, giustizia e amicizia diventa un insopportabile tormentone reiterato pressoché SEMPRE che mutila e appiattisce i già brevissimi combattimenti. Athena si riscopre Dea del Populismo, i suoi seguaci parlano, parlano e parlano distruggendo ogni senso di patos a colpi di pistolotti moralistici lunghi e odiosi, con una cascata di zucchero e buonismo da a ways venire le carie. A danno fatto, lo spettatore non può che registrare la visione di 46 puntate se possibile ancora più deludenti della prima parte, visivamente più spettacolari e rette su personaggi più interessanti, ma nel senso pratico scritte ancora peggio (sembra incredibile). Lo smacco degli orribili combattimenti finali, l’ignobile (e iperkitsch) huge-mega armatura indossata da Koga negli ultimi due episodi, il rinnegamento, all’ultimo istante, dell’epica morte di alcuni Saint storici (troppo popolari per essere eliminati, facciamolo per finta anche se non ci crede nessuno), trash vario e un sacco di tempo sprecato nel dare smalto agli sfigati e dimenticati Steel Saint (inventati nella serie storica del 1986 e lì giustamente dimenticati dopo pochissimo), sono i fatti più eclatanti che ricorderà, avvilito, lo sventurato fan che si presta alla visione. Con tutti questi problemi passano addirittura in secondo piano le (nuovamente) imbarazzanti carenze tecniche ed animate, ereditate e riproposte dalla prima parte.

Al momento di tirare le somme, la valutazione di Saint Seiya Omega non può che aggirarsi, inquieta, fra una sufficienza stentata (o meglio, regalata) e una moderata stroncatura. I motivi di rabbia per tutti i suoi problemi sono tanti, ma è altrettanto vero che nell’arco dei suoi 97 episodi la serie sa vantare, talvolta, personaggi e situazioni degne del suo nome, compresi villain carismatici e bei combattimenti. Il gran ritmo non manca, le sigle sono mediamente eccellenti e le coinvolgenti musiche orchestrali sono, poi, dei punti di forza che non vengono mai meno. Chi scrive è abituato a dare maggiore importanza alla conclusione di un’opera rispetto alla parte centrale e per questo non può perdonare il pessimo finale di serie, ma è indubbio che, se il fan di Saint Seiya è in grado di guardarsi una serie così lunga sperando in miglioramenti, una scintilla deve essere pur scoccata. Artisticamente e commercialmente, l’esperimento Omega è un oggettivo e meritatissimo flop (anche se Toei e il doppiatore di Seiya, Tōru Furuya, provino a negarlo7, i dati di vendita del merchandising parlano chiaro), ma tutto sommato per qualcuno può rappresentare, con molti limiti, un gradevole ritorno alle atmosfere di una delle più iconiche serie d’azione degli anni ’80.

Voto: 5 su 10

PREQUEL

I Cavalieri dello Zodiaco (1986-1989; TV)

Saint Seiya: Soul of Gold (2015; serie ONA)
FONTI
1 Consulenza di Garion-Oh (Cristian Giorgi, traduttore GP Publishing/J-Pop/Magic Press e articolista Dynit)
2 Attain sopra
3 Attain sopra
4 Attain sopra
5 Attain sopra
6 Attain sopra
7 Lo dice in un focus on divulge brasiliano in cui è invitato come ospite. La cosa è riportata nel sito internet (di quella lingua) Os Cavaleiros attain Zodiaco. http://www.cavzodiaco.com.br/noticia/18/07/2013/imperdivel_toru_furuya_entrevistamos_o_dublador_japones_do_seiya_veja_o_que_ele_falou_sobre_possiveis_continuacoes_apos_omega_a_continuacao_do_prologo_do_ceu_sobre_ser_o_dublador_do_seiya_no_filme_em_3d_sucesso_de_omega_e_a_chave_para_a_continuacao