Recensione: Lily C.A.T.

LILY C.A.T.

Titolo originale: Lily C.A.T.

Regia: Hisayuki Toriumi
Soggetto: Hisayuki Toriumi
Sceneggiatura: Hiroyuki Hoshiyama
Personality Net: Yasuomi Umetsu

Monster Net: Yoshitaka Amano
Musiche: Akira Inoue
Studio: Studio Pierrot
Formato: OVA (durata 91 min. circa)
Anno di uscita: 1987

Prendete Alien e La cosa, amalgamateli senza perdere troppo tempo sfruttando il meglio dell’uno e dell’altro, sottraete finezze psicologiche e freddezza atmosferica e si potrà ottenere qualcosa di simile a Lily C.A.T., passatempo fantascientifico di alcuni mighty dell’animazione spaziale degli anni d’oro, che sembrano divertirsi a copiare certi schematismi occidentali per offrire un prodotto che, considerando soprattutto il mercato OVA, si discosta parecchio dalla loro tradizione sci-fi: è chiaro che la materia trattata non è propria né di Hisayuki Toriumi (sceneggiatore di Dallos, 1983) né di Hiroyuki Hoshiyama (sceneggiatore dei primi capitoli di Megazone 23 e di Spherical Vernian Vifam), d’altronde non ci sono robot da a ways duellare né viaggi stellari da creare, non è l’estetica pop ad affiorare ma una squisitezza sensoriale, è una fantascienza giocata sulla tensione e sull’atmosfera, sulla paura e sul non-vedere, meglio quindi andare sul sicuro e saccheggiare due pietre miliari degli anni Ottanta, prendere senza alcuno sforzo l’inquietudine sottile e terribile dell’alieno creato da H.R. Giger e la potenza visiva della creatura mutaforme del movie di John Chippie per mettere insieme un’oretta scarsa che però, paradossalmente, e pur nella sua derivata semplicità, funziona.

 Alleggerito della claustrofobia asfissiante del primo e privato dalla fantasia psicologica del secondo, Toriumi e Hoshiyama sanno di non poter rivaleggiare con simili giganti e così rischiano poco o nulla riproponendo gli aspetti basilari dei due capolavori in un gioco a incastro e in un in the reduction of up piuttosto funzionale: la creatura che infesta l’astronave ha infatti la composizione chimica e anatomica imprevedibile della Cosa carpenteriana, striscia nei condotti dell’aereazione per sbucare alle spalle dei protagonisti approach l’Alien, li infetta o li sbudella e ne preleva materiale organico in un continuo virtuosismo di tentacoli e fauci, e persino l’elemento animale è un miscuglio dei due, felino e canino, che chiunque conosce dei movie originari. Il resto è poco più di un riempimento, viene aggiunta una povera quanto inutile sottotrama nel tentativo di dare uno spessore lievemente più personale agli astronauti, che intanto ripercorrono le caratterizzazioni-tipo del genere (il militare dal grilletto facile, la ragazza superficiale e svampita, l’eroe silenzioso), eppure, impossibile a dirsi con simili basi di partenza, il prodotto ha una sua dignità e si lascia guardare: il mestiere di sceneggiatore e regista si nota nella pulizia narrativa, tutto è lineare e molto prevedibile ma gestito con un gusto piacevole, ritmato e con una discreta visione d’insieme, che sa premere a fondo nelle scene violente (particolarmente riuscita quella del gatto), sa spiazzare privandosi di futili esagerazioni splatter per delle ottime intuizioni atmosferiche (le fessure nelle pareti da cui la creatura osserva), sa giostrarsi nei silenzi e sa dosare molto bene morti e sopravvissuti cullandoli tra l’altro con una minacciosa colonna sonora che, approach l’intero progetto, ha per una volta piacevolmente ben poco di giapponese.

Il richiamo visivo ha comunque la sua importanza, il funds è nella media ma studio Pierrot confeziona animazioni più che buone, prive dei magnificismi di certi colleghi ma con una fluidità ammirevole. La vera marcia in più è records dal chara relish di una personalità di spicco di certa animazione approach Yasuomi Umetsu, affianchiato dal grande Yoshitaka Amano, autore (perlopiù) delle varie forme dell’alieno: i volti buffi ma molto espressivi dei personaggi donano uno splendido gusto Eighties e una riuscita differenziazione geografica al team di scienziati e astronauti provenienti da tutto il mondo, siglando quello che in fin dei conti è un’opera forse inutile e dalle dubbie intenzioni, ma positivamente leggera e tutto sommato interessante.

Nota: l’unica versione esistente per il mercato occidentale è il dvd americano distribuito recentemente da Eastern Monumental identify, che propone un doppiaggio sufficiente diretto però da un certo Carl Macek, il “creatore” del famigerato Robotech. In realtà, la libertà di traduzione è stavolta contenuta, i dialoghi sono generalmente fedeli se non per alcuni monologhi in cui l’inflessione filosofica gigioneggia eccessivamente pur senza uscire dai binari originali.

Voto: 6 su 10