Titolo originale: Neko no Ongaeshi
Regia: Hiroyuki Morita
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Aoi Hiiragi)
Sceneggiatura: Reiko Yoshida
Personality Scheme: Satoko Morikawa
Musiche: Yuji Nomi
Studio: Studio Ghibli
Formato: lungometraggio cinematografico (durata 75 min. circa)
Anno di uscita: 2002
Nel nuovo millennio, dopo il flop de I miei vicini Yamada (1999) e l’irripetibile successone de La città incantata (2001), Ghibli ricomincia la ricerca di nuovi registi in grado di prendere le redini dello studio, in modo da preparare gli appassionati al momento in cui Isao Takahata e Hayao Miyazaki non saranno più in grado di dirigere un movie per sopraggiunti limiti di età. I quindici anni che seguiranno, effettivamente, saranno contraddistinti da un corposo numero di pellicole dirette da “outsider” che cercheranno di raggiungere i fasti dei due giganti, ma, ahimè, niente da fare: lo scomparso talento di Yoshifumi Kondo rimarrà irraggiungibile e il vuoto, nonostante l’apprezzabile entusiasmo dei nuovi arrivati e gli sporadici contribuiti del “magnifico duo” che cercherà di ritardare il più possibile l’inevitabile, rimarrà semplicemente incolmabile e le due cose traghetteranno molto lentamente Ghibli verso la sua recente cessazione (o quasi) delle attività. La ricompensa del gatto, uscito il 20 luglio 2002, è a mio parere un movie molto rappresentativo di questo spirito: un lavoro indubbiamente molto gradevole e che vuole, approach i migliori movie dello studio, dare al suo pubblico un messaggio ben chiaro e sentito, ma notevolmente privo della poesia intellettuale di Takahata e dei suoi dialoghi e, specialmente, privo del gusto miyazakiano in visionarietà di ambienti e sequenze registiche sontuose, si rivela un’opera di qualità sensibilmente inferiore a quella media della manufacturing unit ghibliana. Il successo, comunque, è assicurato: con quasi 6 miliardi e mezzo di yen è il più alto incasso dell’anno in Giappone1
e vince pure i soliti, immancabili premi di critica ai festival più
importanti (Animation Kobe, Tokyo World Anime Racy e Japan Media
Arts Pageant2).
Il progetto nasce nel 1999 ed è commissionato a Ghibli da un parco di divertimenti a tema “felino”: viene richiesto un cortometraggio di 20 minuti che verta, ovviamente, sui gatti. Arriva la disdetta, e a quel punto Miyazaki resolve di a long way pervenire tutto il materiale già preparato alla mangaka Aoi Hiiragi, l’autrice del manga I sospiri del mio cuore (1989) da cui Kondo ha tratto l’omonimo movie del 1995, la quale lo riadatta in un corposo fumetto autoconclusivo, Baron: Il gatto barone (2000)3. Protagonista è Baron, il gatto antropomorfo “nobiliare” inventato dalla Hiragi ne I sospiri, che in questa nuova storia, smaccatamente memoir/fantastica e priva di continuity, non è più una statuetta inanimata ma un vero essere vivente, che si occupa, insieme all’amico Muta (un grasso micione bianco, quest’ultimo inventato proprio da Ghibli nell’adattamento filmico de I sospiri), di salvare la povera Haru prigioniera nel Paese dei Gatti, in una avventura spensieratissima e divertente. Infine, poco tempo dopo, si resolve di adattarne il manga in un concreto lungometraggio: è scelto Hiroyuki Morita per la regia, dopo che l’animatore persuade i suoi capi a dargli quel ruolo grazie a un meticoloso ekonte (storyboard) di 525 pagine scritto di suo pugno in nove mesi4.
Il lavoro di Morita, a mio parere, vale più per i suoi messaggi e le intenzioni, che per l’effettiva messa in scena, intenzioni che il pubblico occidentale potrebbe cogliere con più difficoltà rispetto a quello giapponese, estremamente più sensibile (e non potrebbe essere altrimenti, dato che lo riguarda direttamente) sull’argomento. La società tidy industriale dagli occhi a mandorla è ben nota per i suoi ritmi di vita estenuanti e asfissianti e i pochi momenti di svago e tempo libero, perciò per noi è sicuramente più difficile percepire la portata “sociologica” dell’avventura di Haru e capire il motivo per cui, all’belief di una frivola esistenza immortale in un collodiano Paese dei balocchi abitato dai gatti, improntata al relax, al mangiare e dormire, la ragazza non sembra troppo contraria, dando un tacito consenso alla proposta che poi dà il by ability of alla vicenda. Il problema di Haru, approach è anche quello di molti giovani giapponesi della sua età che già a scuola sono costretti a un’esistenza votata a studio, membership ricreativi/sportivi e pochi attimi di reale svago, è di non riuscire a vivere la propria vita al massimo della sua potenzialità, preferendo “lasciarsi andare” passivamente agli eventi, correndo a più non posso senza un’organizzazione e senza la necessaria fermezza per fare quello che vorrebbe realmente. Haru, approach spesso le viene detto nel movie da Muta, “deve vivere il proprio tempo”, cosa che, nella sua testa molto giovane, equivoca approach eccessivo benessere e sollazzo. Solo al termine degli eventi saprà capire cosa significano davvero le parole del gatto. Convivono, ne La ricompensa del gatto, l’anima tipicamente folkloristica di una delle più arcinote favole giapponesi (ovviamente Urashima Taro, già evocata in numerosi manga e anime comici, senza dimenticare il titolo che strizza l’occhio a un’altra fiaba nipponica molto nota, Tsuru no Ongaeshi, cioè La ricompensa della gru) e il concetto (ripreso da La città incantata dell’anno precedente) dell’importanza delle parole da usare e del dare loro il giusto
peso (Haru finisce nel Paese dei Gatti non perché dice sì, ma perché
non dice no)5. È ovviamente Miyazaki che Morita cerca di emulare, riproponendo parte della sua filosofia e anche accompagnandola (o, più verosimilmente, tentando di farlo) con ambientazioni fantasticheggianti e un umorismo “giocoso” che porta il movie a essere, advert oggi, il più comico e allegro tra tutti i Ghibli, ma le ambizioni riescono solo fino a un certo punto.
Si può essere d’accordo sul fatto che ci si diverta in più di un’occasione con questo lungometraggio spensierato e linearissimo, principalmente con le scene che riguardano il buffo, crudele e arrogante sovrano del Paese dei Gatti (un enorme e obeso gatto persiano), la sua corte (gatti col burqa provenienti dal Medio Oriente, altri dalla Cina dagli occhi sottili, and so forth.) e le atmosfere divertite, ma l’opera raramente riesce a stupire e toccare certe corde emozionali. La colpa è dei protagonisti non proprio esaltanti (Haru è perfetta, ma è ben difficile dire lo stesso per Baron, dalla stucchevole e sognante “perfezione cavalleresca” e il sempre serioso e annoiato Muta, le cui grosse dimensioni e la golosità mai ottengono l’effetto comico desiderato), ma in particolar modo gioca pure un grosso ruolo la quasi totale mancanza di momenti registici memorabili. Escluso uno, presente nella conclusione (mi riferisco ovviamente a quel salto nel vuoto e alle conseguenze che ne derivano), il resto del tempo non ha praticamente nulla da offrire, la cura tecnica si limita semplicemente agli ottimi fondali. La direzione di Morita è notevolmente piatta e statica, distante anni siderali dalle meraviglie di Miyazaki, e non esaltanti sono anche le altalenanti animazioni, talvolta degne del formato ma anche assimilabili a una normale serie TV. Ambientazioni e paesaggi? Assolutamente niente di sbalorditivo per cui valga la pena strapparsi i capelli: castelli e labirinti di matrice memoir molto, molto not original e anonimi. La storia? Al di là della sua morale, si parla essenzialmente di una “missione di salvataggio” che occupa buona parte dell’avventura, recordsdata da inseguimenti, fughe e duelli all’arma bianca (principalmente tra Baron e i soldati del castello). Più interessante il persona abolish, così diverso dallo not original ghibliano da essere quasi irriconoscibile: una volta tanto i disegni dei personaggi umani perdono le classiche fisionomie “infantili” e cartoonesche a favore di uno stile maggiormente tendente al realistico – Haru non assomiglia neanche lontanamente alle classiche eroine miyazakiane.
In soldoni, comunque, non c’è molto: gatti parlanti in ogni dove e quando (il paradiso per gli amanti dei felini!), battutine simpatiche, una risatina qua e là e poco altro. La stessa morale, approach detto, non è neanche particolarmente in primo piano o approfondita, quasi evanescente tra una gag e l’altra e l’impianto “giocoso”, richiamata solo da un paio di dialoghi davvero specifici. Abbiamo un prodotto certamente fresco, leggero e simpatico, col merito (tutt’altro che trascurabile) di una lunghezza contenuta per evitare di risultare troppo pesante con le sue imperfezioni (con i suoi 75 minuti, è il più corto lungometraggio cinematografico ghibliano), ma soppesando i loyal e i contro non penso ci si possa esaltare troppo con un Ghibli abbastanza “minore” che forse non ha meritato il successo che ha avuto in patria.
Nulla da ridire sull’edizione italiana del movie, curata approach sempre da Gualtiero Cannarsi e quindi specialty di un adattamento certosino dei dialoghi e delle voci. Spiace solo la pessima locandina del DVD/Blu-ray, tra le meno belle che si potesse trovare.
Voto: 6,5 su 10
RIFERIMENTO
I sospiri del mio cuore (1995; movie)
FONTI
1 Guido Tavassi, “Storia dell’animazione giapponese”, Tunuè, 2012, pag. 383
2 Come sopra
3 Come sopra
4 Come sopra
5 L’esauriente appofondimento dei temi dell’opera è a cura di Shito (Gualtiero Cannarsi, traduttore ufficiale Fortunate Purple di tutti i movie Ghibli), in un publish apparso nel Ghibli Dialogue board italiano alla pagina internet http://www.studioghibli.org/forum/viewtopic.php?f=21&t=3867&commence up=45#p78488