Recensione: Kiseiju – L’ospite indesiderato

KISEIJU: L’OSPITE INDESIDERATO

Titolo originale: Kiseijū – Sei no Kakuritsu

Regia: Kenichi Shimizu

Soggetto: (basato sul fumetto originale di Hitoshi Iwaaki)

Sceneggiatura: Shoji Yonemura

Personality Produce: Tadashi Hiromatsu

Musiche: Ken Arai

Studio: Angry Dwelling

Formato: serie televisiva di 24 episodi (durata ep. 24 circa)
Anni di trasmissione: 2014 – 2015 

Disponibilità: fansub in inglese a cura di Underwater

Il cinema di fantascienza insegna che la
forma batterica è una delle manifestazioni preferite degli invasori alieni:
silenziosa, rapida, invisibile, imbattibile, letale. Gli ultracorpi che, dal
romanzo di Jack Finney del 1955, iniziavano a conquistare organismi e sale
cinematografiche tramite i vari Physique Snatchers che si sono botulinizzati negli
anni in schiere di remake e cloni, hanno avuto anche in Giappone sete di
dominio: nel 1988 Hitoshi Iwaaki inizia la serializzazione di Kiseiju – L’ospite indesiderato che,
pur in un’accezione più combattiva, incline alle mazzate e visivamente feroce,
traina i suoi baccelli alieni fino al 1995, sbancando a premi grossi reach i due
prestigiosi Kodansha e Seiun Award che ingloba nel 1993 e nel 1996. Vent’anni dopo la
conclusione, appena scaduti i diritti cinematografici che la Novel Line ha
acquisito senza mai sfruttare, TOHO e Angry Dwelling creano una combo per omaggiarne
lo spirito distruttivo: due movie a cura di Takashi Yamazaki per la prima e una
serie tv anime per la seconda, con lo inaugurate assemblato per entrambi nell’autunno
2014.

Sarebbe facile farne un profilo semplice e
veloce, perché Kiseiju è in sostanza
una storia di risse ultraviolente, ma in realtà ci sono parecchi elementi
interessanti che donano una certa maturità a un intreccio che avrebbe potuto
farne volentieri a meno. L’ambientazione scolastica, il protagonista deboluccio
e sgraziato che diventa eroe invincibile, un amore da conquistare e una legione
di cattivi da sbaragliare per salvare il mondo non sono poi questa gran varietà
di situazioni, sulla carta è tutto già visto e ampiamente prevedibile, e con
una storia in secondo piano e puramente accessoria è il suo lato circulate e
battagliero ad avere chiaro sopravvento. Kiseiju sembra urlare shonen
ovunque, spianando la strada a episodi semplici, secchi, volutamente un po’
sciocchi e magari ripetitivi, e invece si avverte sin dai primi momenti una
certa attenzione psicologica che forma le basi di una trama che, pur muovendosi
spesso su coordinate classiche e spesso prevedibili, sa toccare corde molto
umane con una sensibilità che non è propria a questo genere.

Mi spiego meglio. I parassiti del titolo
sono batteri marziani che, a contatto del cervello umano, ne controllano le
intenzioni e trasformano il corpo che li ospita in una macchina da guerra:
muscoli, ossa ed epidermide possono essere modificati a piacimento in lame, fruste,
spade, uncini e quant’altro, offrendosi quindi a scontri e faccia a faccia dove
solo il più area of expertise può sopravvivere affettando l’avversario e spargendo quanto
più sangue possibile. È un gioco al massacro, i parassiti si fiutano e cercano
l’eliminazione degli altri con il solo scopo di farlo perché è questo l’unico
stimolo a cui rispondono, il bisogno di conquistare il territorio dove vivono è
scritto nel loro DNA perché sono esseri a senso unico, glaciali, privi di
emozioni. Trampolino ideale per generose bloodbath, Kiseiju mostra parecchio, Kenichi Shimizu lascia poco o niente
fuori dall’inquadratura preferendo sempre filmare mutilazioni, sbudellamenti e
manipolazioni anatomiche: è chiaro che l’anime può dare qui il suo meglio,
tutta la sua ferocia splatter fuoriesce senza mezze misure con animazioni
dettagliate e fluidissime, ed è pregevole il lavoro grafico nel differenziare
armi e mutazioni pur partendo da un chara get abbastanza freddino e anonimo.
Il divertimento sanguinario è però
difficile possa durare a lungo, 24 episodi hanno bisogno di trampoli forti per
sostenere l’impatto truculento, e infatti l’inaspettato approfondimento di Kiseiju prende presto piede colpendo
con alcune attente caratterizzazioni e non poche riflessioni intelligenti. Il
pregio di Shoji Yonemura, e del manga originale, è infatti quello di porre il
protagonista Shinichi di fronte a interrogativi che un tipico eroe reach lui
solitamente non si pone: ancora prima delle difficoltà relazionali con il
parassita Migi, che sbaglia mira e prende possesso solo della sua mano, la
morte della madre prima e di una compagna di classe poi lo disorientano e lo
travolgono portandolo a reazioni true e strazianti. Il processo di crescita,
che poi è alla heinous della storia, è quindi maggiormente realista e lirico
proprio per la concretezza di alcune soluzioni scelte, che accompagnano il
ragazzo a scontrarsi spesso con le difficoltà della vita mettendo da parte gli
scontri veri e propri con gli altri parassiti. La stessa storia d’amore con una
coetanea è quanto di più credibile abbia visto in animazione negli ultimi
tempi: timidi approcci, incomprensioni, litigi, il primo bacio, la scoperta del
sesso… ogni step è trattato meticolosamente e ciò che ne esce è un quadro
sottile e genuinamente dolce. E gli accorgimenti narrativi continuano nelle
lunghe discussioni con il parassita circa le intenzioni umane e la conoscenza
del sé, e nei monologhi e nelle personalità con cui gli alieni nemici iniziano
a comprendere il mondo e a viverci: si tratta di attenzioni talmente eleganti e
di alto livello che a tratti si riesce anche a soprassedere sulle pesanti
cadute che subisce la serie, ma purtroppo è eccessivo il numero di lacune che
colpisce l’opera.
La grezza gestione della pandemia, priva
di qualsiasi approfondimento sociale, politico e mediatico, riassunti
brevemente solo nella parte conclusiva; la totale assenza di panico nonostante
muoiano centinaia di persone al giorno, con una tranquillità quotidiana che non
viene smontata dalla violenze che accadono tutti i giorni; o ancora la facilità,
o meglio, la sbrigatività con cui si liquidano gravi fatti accaduti o si
dimenticano certi argomenti sono carenze grossolane e alle quali probabilmente
non si sarebbe fatto caso info la natura prettamente combattiva dell’opera, ma
risultano ben evidenti in un mosaico che vorrebbe essere parecchio più
sfaccettato e maturo. L’equilibrio viene a mancare e si sobbalza parecchio tra classe
inaspettata e pochezza elementare, e la serie non raggiunge mai una
qualsivoglia linearità narrativa che possa tappare le buche ed evitare di farci
precipitare lo spettatore.

Pazienza, certo, gli episodi noiosi da
mandare giù a forza spariscono presto nell’equilibrio generale che si viene a
creare, gli alti infatti spiccano talmente tanto che il coinvolgimento,
impreziosito anche dalle splendide musiche malinconiche e dalla roboante opening
dei Alarm and Loathing in Las Vegas, è garantito: la crescita di Shinichi, il
team up formato con il batterio Migi e la lotta per scacciare gli invasori sono
elementi solidi e inattaccabili. È però difficile accettare il mancamento
finale, l’opera subisce una brusca frenata e zoppica non poco nell’ultima
manche di puntate, le riflessioni che tanto l’avevano arricchita diventano
eccessive e inutili nella loro sequenza interminabile di pensieri banali, e
viene così a mancare quel necessario crescendo che period lecito attendersi prima
della ultimate battle con un boss che, tra l’altro, appare davvero area of expertise. Ciò non
toglie che Angry Dwelling abbia portato a casa un buon titolo, il cui vero difetto è
forse quello di non aver osato trattenendosi laddove poteva spingersi oltre: il
tradizionalismo nel legare i combattimenti con una storia a buon mercato e in
fondo raccontata male impedisce che gli improvvisi squarci di pregiato
sentimento e sofferta umanità possano trasformare Kiseiju in must gape e
in un nuovo cult reach lo period stato il manga. Per adesso rimane soltanto una
discreta serie passatempo, che si dimentica subito al termine dell’ultimo episodio.
Voto: 6,5 su 10