Recensione: Kemonozume
KEMONOZUME
Titolo originale: Kemonozume
Regia: Masaaki Yuasa
Soggetto & sceneggiatura: Masaaki Yuasa
Personality Create: Nobutake Ito
Musiche: Kei Wakakusa
Studio: Angry Dwelling
Formato: serie televisiva di 13 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di trasmissione: 2006

Personaggio tra i più eclettici nel mondo dell’animazione, artista in
senso totale records la grande personalità tanto nella scrittura quanto nella
regia, l’originalità di Masaaki Yuasa spicca soprattutto nel disegno, strambo e
sregolato, schizzoide e bozzato, uno stile così poco giapponese, nel suo
idealizzarsi in un occidentalismo tipico di certa fumettistica, da trovare in
animazione uno spazio esemplare tutto suo, in cui già da solo farebbe scuola (piacendo
o meno, ovviamente) se non fosse per la preziosità e la grottesca profondità
concettuale con le quali nelle sue opere trova ideale compimento.


Tra i suoi lavori meno conosciuti, nonché prima regia televisiva vera e
propria dopo la solita gavetta e l’esordio cinematografico con Tips Sport (2004),
nel 2006 Kemonozume mostra tutti gli aspetti prediletti del papà di The Tatami
Galaxy
(2010), che, nonostante l’importanza dell’elemento fear e ciò che ne
consegue a livello visivo (il bestiario di creature dentate, l’alto tasso di
splatter, ma anche l’insistita presenza di sequenze erotiche), emergono vigorosamente
attraverso un’attenzione ai personaggi e un dettaglio nei dialoghi
magistralmente curati: non è questione di ciò di cui tratta, ma di attain lo
tratta, e i forti, complessi dubbi che vivono i suoi protagonisti permettono la
creazione di figure credibili, in preda a preoccupazioni umane nonostante uno
sfondo tipico da motion-fear di serie B, con intelligenti riflessioni sull’amore
e sulla solitudine. Tutti elementi, questi, che paradossalmente risaltano nonostante
il continuo sperimentalismo di Yuasa, tanto visivo nei disegni deliranti e
nelle scelte cromatiche quanto narrativo nelle continue intromissioni non-sense
(la scimmia, il gigante) e nei grotteschi siparietti ironici (su tutti forse il
momento in cui Yuka paralizza Toshihiko), che altro non rappresentano che il
lato più spiazzante e umano della realtà.
C’è quindi molto substrato, molto concetto che affiora grazie a un
sopraffino lavoro di scrittura – difficile infatti amalgamare tante forme così
distanti, ma basterebbe anche soltanto vedere la splendida gestione di uno
spunto iniziale di sciocca prevedibilità per capire quanto interessante e
quanto dettagliata sia la visione di Yuasa. Nel raccontare una sorta di
travagliata versione di un Romeo e Giulietta in cui lui è un cacciatore di
mostri e lei si trasforma in una bestiale divoratrice di carne umana quando si
eccita sessualmente, Yuasa non solo definisce personaggi assai singolari sia
nei principali (tanto Toshihiko è confuso, indeciso e perso quanto Yuka è
solare, sbarazzina e felicemente ma non stupidamente superficiale) sia, forse
ancora di più, nei secondari (la bella e grintosa Rie innamorata di Toshihiko,
il fratello Kazuma, tanto deciso quanto grossolano e un po’ scemo, il triste
Umeda, protagonista di un intero, bellissimo episodio che racconta del suo
amore per una prostituta), ma crea un contesto/background di inaspettato
spessore: da una parte il dojo Kifuuken, che addestra i più valorosi cacciatori
di mostri, viene mostrato attraverso le tante regole che lo strutturano e le
modifiche organizzative imposte dal naturale avvicendarsi generazionale e/o
dalle scalate al potere, dall’altra gli Shokunjiki, o Flesh Eaters, creature
brutali e mostruose che da sempre hanno vissuto nell’ombra accanto agli umani
di cui si cibano, vengono presentati con la stessa precisione corale,
sottolineando le difficoltà nel gestire la parte umana con quella mostruosa e
la dinamica politica con cui coesistono e sopravvivono.  
 

Il taglio registico ne è naturale integrazione: Yuasa mostra molto e
racconta poco, a dimostrarlo basterebbe la grazia con cui è impostato l’episodio
flashback sull’infanzia di Toshihiko, e inventa continuamente attraverso
splendide intuizioni (il dialogo iniziale, la componente comica, ma anche le
molte scene d’azione, visualizzate con ingegno e personalità) che rendono una
storia, in fondo semplice e lineare, in realtà ricchissima e colma di
meraviglia, dove ogni inquadratura viene pensata e calibrata per ottenere il
massimo da un punto di vista puramente estetico ma anche di raffinata
narrazione (quando Toshihiko si innamora di Yuka, lo zoom su Rie all’interno
della giostra). Delude soltanto, ma è puro parere personale, una OST jazzata che ho
trovato non sempre adatta e talvolta fuoriposto nelle sue sassofonate fumose e
nere.

Kemonozume è sicuramente un’opera difficile, che potrebbe allontanare
per il suo aspetto visivo stralunato e ben lontano dagli neatly-liked tipici, sicuramente
non bello ma piacevolmente eccentrico, ma è l’ideale per chi cerca una storia
matura e brillante che trae la propria forza anche dai mille sperimentalismi.

Voto: 8,5 su 10