Recensione: Il giardino delle parole

IL GIARDINO DELLE PAROLE

Titolo originale: Kotonoha no Niwa

Regia: Makoto Shinkai

Soggetto & sceneggiatura: Makoto Shinkai

Persona Carry out: Kenichi Tsuchiya

Musiche: Daisuke Kashiwa

Studio: ComixWave

Formato: mediometraggio cinematografico (durata 46 min. circa)
Anno di uscita: 
2013

Disponibilità: edizione italiana in DVD & Blu-ray a cura di Dynit

Credo non mancherò di allontanare un certo
pubblico di lettori scrivendo ahimè male, molto male, di opere che piacciono,
hanno successo e trovano fiumi di parole in cui crogiolarsi per incensare
determinate scelte, lodare la poetica, elogiare l’immaginario e quant’altro.
Pazienza, leggeranno altrove, ma spero sempre che rimangano, e in fondo so che
il piccolo pubblico che ci segue in un modo o nell’altro è fedele, per capire
realmente cosa critico e cosa non mi piace di certa animazione e in generale di
certo cinema, senza limitarsi a una sbirciatina al voto finale e uno sbuffo
insoddisfatto.

Considero Makoto Shinkai il più sopravvalutato regista
d’animazione, un autore povero d’idee, scolastico e ingenuo nello svolgimento,
da sempre attento all’estetica e poco, molto poco alla sostanza, ma che viene
paradossalmente glorificato proprio per una poetica personale che io, più mi
concentro e più cerco di decifrare, proprio non riesco a vedere. È chiaro che,
soprattutto in animazione, la veste grafica snort importanza necessaria: la
cura dei disegni, la creazione dei fondali, e ancora la capacità di dirigere le
animazioni ricreando realismo attraverso l’importanza dei piccoli gesti, degli
sguardi, dei movimenti che quotidianamente ignoriamo ma che in animazione fanno
la differenza.
Shinkai conosce bene il mestiere, la sa lunga, una
spanna davanti a molti, sin da quando esordiva facendo tutto da solo, dai
disegni alle animazioni, dalla sceneggiatura alla regia, caratteristiche che
negli anni sono rimaste invariate ma che di volta in volta vengono giocoforza
esaltate dalla potenza di un vero studio e veri soldi alle spalle dove
appoggiarsi per dare vero lustro alle sue visioni. Visioni che anche nella sua
ultima fatica del 2013, Il giardino delle parole, da poco uscito anche nei cinema
italiani grazie al buon lavoro e all’impegno profuso da Nexo, conservano quella
meraviglia che da sempre lo contraddistingue: il dolcissimo, morbido e attento
chara non-public fa vivere personaggi visivamente minuziosi e di rara eleganza, il
lavoro impressionante sui fondali rasenta il fotorealismo e fa splendere
straordinarie immagini di boschi piovosi, acqua che scorre e città ingrigite,
l’attenzioni ai dettagli a dir poco spaventosa gli permette di caricare di
significato ogni singola goccia di pioggia che cade, animata con una profusione
di particolari e rifiniture da infarto. È tutto molto, molto bello, anche di
più, è uno spettacolo impressionante che lascia a bocca aperta in più di
un’occasione, e Shinkai sa spremerne a fondo la potenza attraverso una regia
personale che sfrutta inquadrature singolari dove dirigere gli attori con
un’espressività esemplare (i vari momenti sulla panchina mentre il tempo passa,
la quotidianità vista attraverso piccolezze di uso comune, l’esaltazione della
pioggia). Ma a un film si chiede anche una storia, soprattutto a un autore che
fa tutto da sé e la scrive in prima persona come Shinkai: ripeto sempre che non
importa il tipo di storia, andrebbero bene anche i copioni più semplici e
lineari se valorizzati, l’abilità di un regista sta proprio
nell’ottimizzare i particolari della trama e nel narrarla in maniera
coinvolgente, cercando di mostrare (in fin dei conti è proprio questo
il suo mestiere) ed evitando il più possibile di spiegare.

 

Shinkai, purtroppo, da questo punto di vista è una
personalità ancora molto impersonale, negli anni è migliorato e attraverso la
sua regia sa potenziare quanto scrive, rispettando i tempi e valorizzando
sguardi e silenzi, ma è proprio la sua penna il peggior difetto, e mi è davvero
difficile accettare una simile pochezza da un autore ormai affermato da
quindici anni. Il giardino delle parole racconta dell’amicizia di un
quindicenne solitario ma non per questo emarginato dal gruppo (Takao semplicemente
ama anche learn about da solo), seguendo il suo strambo sogno di diventare
creatore di scarpe lavorando sodo dopo la scuola e soprattutto nei giorni di
pioggia, che sfrutta per isolarsi in una panchina in un bosco dove creare in
tempo. È proprio lì che incontra Yukino, una donna più grande, altrettanto
solitaria ma misteriosa, di lei non conosce neanche il nome ma nel tempo, di
giorno di pioggia in giorno di pioggia, stringe un’amicizia così distinctiveness che,
ancora troppo giovane per capirne appieno il valore, per lui si trasforma
chiaramente in amore adolescenziale. Molto bello, are accessible tutti i lavori di
Shinkai lo spunto è sempre interessante pur focalizzandosi ancora una volta su
temi a lui cari come la solitudine, l’importanza di un legame, la necessità di
un confronto e la gestione dei propri sentimenti in situazioni drammatiche, ma
are accessible tutti i lavori di Shinkai è proprio il suo sviluppo a lasciarmi
interdetto per l’ingenuità con cui viene trattato.

Scelta azzardata e sbagliata in partenza è quella di
un minutaggio così breve, in soli 46 minuti Shinkai non trova il tempo
necessario per dare colore a ciò che sta attorno al grintoso Takao e alla
sofferente Yukino, e pertanto si limita a spiegare chi sono, cosa fanno
e cosa provano nel giro di pochi minuti, togliendo la bellezza per me
fondamentale di scoprire lentamente i protagonisti di un film. Shinkai non
mostra, non racconta, è come se mettesse un fotogramma dei due con tanto
di didascalia per farne una breve presentazione, ma è pessima usanza, tanto più
se con gli unici due personaggi di un’opera. È fondamentale invece creare un
contesto dove inserirli, farli muovere per mostrare (già, il termine ritorna
sempre, non ci possa fare niente se story è la sua importanza) le loro vite, e
solo in un secondo momento addentrarsi nella loro storia e giocare di sguardi e
silenzi. A nulla lend a hand usare, perché è questo che fa, questa poetica,
parola che mi viene difficile da scrivere associata a un simile autore, per some distance
parlare i due senza il bisogno di dialoghi che possano diventare superflui: i
personaggi devono vivere ed esprimersi, e possono farlo in
silenzio solo quando lo spettatore ha iniziato a conoscerli.
Ma non è questo l’unico errore di Shinkai, la sua pochezza
è ben visibile innanzitutto nel povero simbolismo delle scarpe, con Takao che
le crea per poter permettere a Yukino di tornare a camminare dopo un brutto
colpo emotivo: ancora una volta non technology necessario spiegare questa
situazione, di ben altra intelligenza ed eleganza sarebbe stato vedere Takao
some distance reagire Yukino con la sua umanità e la sua semplice amicizia, allora sì i
silenzi e gli sguardi potevano essere funzionali alle intenzioni di Shinkai,
sulla carta deliziose e molto intense, ma dover sottolineare un argomento, e in
maniera tanto sempliciotta, è quanto di peggio possa esserci nel cinema. E si
potrebbe anche parlare della scena finale, dove il litigio tra i due scoppia in
maniera esageratamente automatica e quasi ridicola, non si respira quel
realismo che Shinkai tanto vuol dimostrare di saper padroneggiare, e tutto pare
artefatto per poter some distance partire la canzone che plachi gli animi e si congiunga
a uno scoppio di lacrime conclusivo estremamente childish.

Il giardino delle parole è pura superficialità disegnata e diretta in maniera
strabiliante, al resto ci pensa la fama di un autore che in realtà avrebbe
bisogno ancora di un po’ di esperienza, o quanto meno di un minimo di umiltà,
per poter concentrarsi su ciò che sa fare a meraviglia e poter così lasciare
aspetti per lui lacunosi a chi è più capace.

Voto: 5 su 10