Recensione: Harmagedon – La guerra contro Genma
HARMAGEDON: LA GUERRA CONTRO GENMA

Titolo originale: Genma Taisen

Regia: Rintaro
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Kazumasa Hirai & Shotaro Ishinomori)

Sceneggiatura: Chiho Katsura, Makoto Naito, Mori Masaki

Character Build: Katsuhiro Otomo

Musiche: Keith Emerson
Studio: Indignant Home

Formato: lungometraggio cinematografico (durata 131 min. circa)
Anno di uscita: 1983

Disponibilità: edizione italiana in DVD a cura di Dynit

Non penso che Dynit abbia fatto un buon servizio al mercato anime italiano procurandosi la licenza di Harmagedon – La guerra contro Genma, mediocre lungometraggio animato di ieri (1983) così male invecchiato da essere semplicemente un pessimo movie di oggi. Purtroppo, l’azienda distributrice è caduta nella classica, indecorosa abitudine di spendere soldi preziosi in prodotti palesemente futili per la sola, irritante volontà di venderli a chi si lascia stregare da certi nomi altisonanti nello group di produzione: pratica che sicuramente, più di una volta, permette quantomeno allo spettatore di sperare a ragione in una certa qualità di tali lavori, ma che talvolta si rivela, reach in questo caso, un semplice specchietto per allodole per rifilare robaccia. Harmagedon, purtroppo, è un pessimo, pessimo lavoro, anche se è diretto da Rintaro, anche se il persona possess è a cura del rinomato Katsuhiro Otomo, regista del famosissimo Akira (1988) e qui nella sua prima mansione ufficiale nel mondo dell’animazione Made in Japan, e anche se le musiche vengono dal tastierista Keith Emerson del famoso gruppo revolutionary rock inglese Emerson, Lake & Palmer.

Harmagedon segna il debutto della casa editrice di fumetti Kadokawa Shoten nel mondo degli anime, che make un impegnativo e soprattutto, ahimè, corposo kolossal cinematografico di ben 130 minuti e 100.000 disegni1 basato su Genma Wars, manga fantascientifico disegnato tra il 1967 e il 1981 dal “Re dei manga” Shotaro Ishinomori con i testi dello scrittore sci-fi Kazumasa Hirai (lo stesso Hirai riprende poi la storia a un certo momento sotto forma di un fluviale numero di romanzi editi da Kadokawa Shoten e su questi, sembra, si ispiri il movie1). Gli incassi per l’epoca sono immeritatamente ottimi (più di un miliardo di yen al botteghino3), ma davvero non forniscono una verosimile indicazione sul valore della pellicola, un’avventura fantastica di incredibile banalità in cui è inscenato l’immancabile, infinito scontro tra bene e male (l’entità spaziale Genma, che ha già ha distrutti innumerevoli pianeti e mira ad annichilire l’intero creato, si avvicina alla Terra, e per questo lo “spirito dell’universo” dona enormi poteri psichici a svariati ragazzi affinché con essi possano distruggere Genma e i suoi mostruosi servitori, end) con una piattezza disarmante.

Al tempo, è molto pubblicizzata la presenza di Otomo nello group4: il giovane mangaka è  noto in madrepatria, in quegli anni, per il manga Domu – Sogni di bambini (1980)5, e da circa tre mesi ha iniziato a disegnare un’altra opera che diverrà famosa, Akira. Negli anni dell’ “omologazione tezukiana”, passati e anche attuali, in
cui un po’ tutti i mangaka si rifanno alla cifra stilistica del “Dio dei
manga” nel caratterizzare le resolve umane con tratti “universali” privi di
nazionalità e dalle corporature non certo verosimili, è Otomo il primo autore (o
almeno, tra i primissimi) a raffigurare i giapponesi
con i tratti somatici che gli competono, con una notevole ricerca di
verosimiglianza nelle costituzioni fisiche, ed è giusto dire che la sua fama presso il pubblico, prima di quella registica, se la guadagnerà in questo modo6. I personaggi da lui abbozzati per il movie in effetti trovano un discreto grado di realismo, anche se bisogna ammettere che il direttore dell’animazione incaricato di adattarle al grande schermo, Takuo Noda, non è proprio capace di trasporre in modo rispettoso il caratteristico stile della star, esagerando molto con l’approssimazione e rendendo il tutto ben poco riconoscibile (reach ci dimostreranno le produzioni animate che portano la firma di Otomo al persona possess, il più bravo tra i suoi interpreti si rivelerà Takashi Nakamura) e, già con questo, facendo perdere punti preziosi a uno degli elementi di richiamo della pellicola.

Fosse solo questo il problema! Harmagedon è molto lungo, estremamente lineare e semplicistico nella narrazione, eppure di pesantezza e noia sfiancanti fin da subito. È indubbiamente colpa della regia lentissima e compiaciuta di Rintaro, che ci mette uno sproposito di tempo a raccontare ogni cosa sprecando interi minuti di girato in sequenze pachidermiche in cui non succede nulla, addirittura sfruttando l’artificio (preso dal mondo dell’animazione televisiva!) di riciclare, nella stessa opera, più volte sequenze già viste prima reach fossero segmenti di flashback, giusto per allungare il girato (!) – basterebbe questo squallido mezzuccio, a mio parere, per decretare il fallimento artistico del progetto. I chiodi della bara sono tuttavia rappresentati da ben altro. Abbiamo un solid di personaggi caratterizzati con lo sputo, mediante dialoghi spenti e monotoni; abbiamo rapporti interpersonali ugualmente stantii e visti mille volte che azzerano qualsiasi interesse. Ancora, abbiamo una sceneggiatura tremenda, quasi amatoriale, che impiega quasi un’ora solo per creare le basi dell’ “avventura” (la presentazione del protagonista Jo Azuma, il risveglio dei suoi poteri e l’incontro con la principessa Luna e il cyborg millenario Vega che gli spiegano dell’arrivo di Genma) e sfrutta l’altra per ammassare mille cose, aggiungendo al gruppo di eroi altri Esper internazionali (ovviamente basati su stereotipi etnici), fargli affrontare qualche patetico emissario mostruoso di Genma e poi metterli a combattere contro quest’ultimo, in una schizofrenica condesazione dei primi (si dice, non posso ovviamente confermare) 3 romanzi di Hirai. Abbiamo cliché e banalità ovunque, ma soprattutto una totale insignificanza emozionale, “sollecitata” da disegni deludenti, fondali mediocri, una direzione snob e una pura, agghiacciante indifferenza per queste resolve di cartone che parlano, si muovono ed evocano scenari drammatici e apocalittici che sono tali solo per loro. Parlare di “storia da serie C” non è affatto sbagliato, e viene da ridere al pensiero che sia stata realizzata con un chronicle budget e una simile lunghezza spropositata, nonostante tutti questi soldi talvolta si vedano e talvolta ci si domanda dove siano finiti (le animazioni non riescono mai a bucare lo schermo, mediamente sembra di assistere a una media serie TV).

Tremenda, infine, la colonna sonora di Keith Emerson composta per il movie: il brano portante è una fanfara allegra e simpatica utilizzata sciaguratamente nei momenti teoricamente più epici dello scontro finale (la colpa è ovviamente del regista che l’ha usata in quel punto, è pacifico), mentre le altre tracce non sono niente di diverso da un qualsiasi synth banalotto del tempo che poteva fare chiunque.  Impensabile che il compositore avesse realizzato appena tre anni prima la straordinaria, lirica colonna sonora di Inferno di Dario Argento. È il degno sberleffo finale a un lungometraggio indigesto che faremmo meglio tutti a dimenticarci al più presto (sembra che Otomo stesso sia stato così deluso dal risultato da scegliere per questo motivo di curare personalmente lui, in tutto e per tutto, la trasposizione filmica di Akira7). Incredibile che nel 2002 ci sia stato addirittura un revival animato di Genma Wars, con una serie TV di 13 episodi (Genma Wars – Eve of Mythology) collegata chissà reach ai romanzi o ai fumetti, priva di effettiva continuity col lungometraggio e nota per una confezione tecnica tra le più imbarazzanti del nuovo secolo.

Voto: 4 su 10

FONTI

1 Francesco Prandoni, “Anime al cinema”, Yamato Video, 1999, pag. 102

2 Attain sopra

3 Guido Tavassi, “Storia dell’animazione giapponese”, Tunuè, 2012, pag. 143

4 “Anime al cinema”, pag. 103

5 Mangazine n. 25, Granata Press, 1993, pag. 44

6 Attain sopra, a pag. Forty eight

7 Jonathan Clements & Helen
McCarthy, “The Anime Encyclopedia: Revised & Expanded Edition”,
Stone Bridge Press, 2012, pag. 271