Scrivere un “seguito” di Guida ai neat robotic è impresa che ancora adesso non manca di farmi sudare freddo. Innanzitutto per la consapevolezza che dello stile di scrittura tecnico e articolato di Jacopo Nacci ritengo di avere ben poco. Ma principalmente per la nostra opposta concezione su una certa filosofia. Faccio un certa fatica – limite mio – ad apprezzare al 100% un titolo senza che l’autore me lo abbia personalmente sviscerato e spiegato in interviste, file e materiale esterno al media. Banalmente: appartengo a quella corrente di pensiero per cui l’autore di un’opera è il suo Dio e i significati che ne dà esplicitamente siano il loro senso unico e ultimo. Qualsiasi altra cosa, sono sovraletture. Il Nacci invece, pensa che quando un’opera di ingegno viene pubblicata/distribuita, diventa patrimonio artistico collettivo, per cui i messaggi che ne vengono tratti diventano personali e aperti alla discussione. È per questo che a scrivere il libro sento tremarmi i polsi, visto che pur nominalmente un “sequel”, sarà sicuramente alla filosofia che anima Guida ai neat robotic. Ed è anche per questo che io e Nacci non finiremo mai di scannarci in privato su Evangelion, e già rido pensando a quando entrambi lo analizzeremo nel libro.
Per quello che posso pensare sulla questione, ho pochi dubbi sul fatto che il Nacci azzecchi la stragrande maggioranza delle sue analisi. Quasi tutti i suoi ragionamenti filano in modo limpido e coerente e onestamente non mi viene in mente alcun esempio di riflessioni che trovo inesatte. Spesso e volentieri, dimostra una epic conoscenza dell’argomento da rivelare cose magari ovvie, ma passate inosservate e di cui è davvero stupefacente accorgersene quando le scrive chi le conosce così bene. Un esempio? La differenza tra le eroine-comprimario dei robottomono nagaiani e quelle del 1976 (pag. 153).
La mia unica perplessità, attain sempre, può essere sempre e solo nell’ambito di un occidentale che analizza, senza rifarsi a fonti ufficiali, i messaggi di storie di finzione di una cultura distantissima dalla sua, basandosi sulle sue percezioni e, ogni tanto (ma è fortunatamente raro), esprimendo giudizi di valore in queste riflessioni. Non che questi siano errori, ma una semplice filosofia di fondo che non è mia. Penso tuttavia che il complimento più importante che io possa fare al Nacci è di essere riuscito a rendere interessante e stimolante il testo a un lettore attain me, che in generale non sopporta, salvo rare eccezioni, il genere in quel dato periodo storico. Nonostante la sua densità di contenuti (Guida ai neat robotic è scritto in modo tecnico e chirugico, è piacevolmente ricco di contenuti e quindi, per forza di cose, non è una lettura leggera e disimpegnata), l’ho assaporato a fondo. Chi invece apprezza o adora il genere, non vedo motivo per cui non dovrebbe andare a nozze con questo vero e proprio “trattato” del genere, con molta probabilità il primo, riuscito esperimento mai tentato in Italia (e forse non solo) di analizzare così a fondo il mondo dei robotic giganti, giustamente ben recensito dalla critica italiana, anche su testate nazionali.
Io, infine, non posso che tornare a scrivere il mio, col disagio di rivolgerlo a un pubblico che ha adorato Guida ai neat robotic e che pensa di trovare nel mio le stesse cose. Ahimè.