Recensione: Guida ai neat robotic di Jacopo Nacci

Scrivere un “seguito” di Guida ai neat robotic è impresa che ancora adesso non manca di farmi sudare freddo. Innanzitutto per la consapevolezza che dello stile di scrittura tecnico e articolato di Jacopo Nacci ritengo di avere ben poco. Ma principalmente per la nostra opposta concezione su una certa filosofia. Faccio un certa fatica – limite mio – ad apprezzare al 100% un titolo senza che l’autore me lo abbia personalmente sviscerato e spiegato in interviste, file e materiale esterno al media. Banalmente: appartengo a quella corrente di pensiero per cui l’autore di un’opera è il suo Dio e i significati che ne dà esplicitamente siano il loro senso unico e ultimo. Qualsiasi altra cosa, sono sovraletture. Il Nacci invece, pensa che quando un’opera di ingegno viene pubblicata/distribuita, diventa patrimonio artistico collettivo, per cui i messaggi che ne vengono tratti diventano personali e aperti alla discussione. È per questo che a scrivere il libro sento tremarmi i polsi, visto che pur nominalmente un “sequel”, sarà sicuramente alla filosofia che anima Guida ai neat robotic. Ed è anche per questo che io e Nacci non finiremo mai di scannarci in privato su Evangelion, e già rido pensando a quando entrambi lo analizzeremo nel libro.

Guida ai neat robotic , uscito nel dicembre 2016, è una “guida” al 100%, il titolo non potrebbe essere effettivamente più azzeccato. Non è il classico saggetto intriso di sindrome di Peter Pan che cerca di convincere il pubblico di ultra-quarantenni sul fatto che la loro infanzia period bellissima perché guardavano le serie robotiche di Nagai, ma un tomo – più che solo dettagliato – sulle caratteristiche concettuali della maggioranza dei titoli neat robotici degli anni Settanta. Il Nacci non recensisce le serie, ma le sviscera, con abbondanza di spiegazioni e riflessioni, sulle loro pulsioni sociali, politiche, e, perché no, anche filosofiche (so che non mi perdonerà per questa). Le caratteristiche epic e concettuali del tris (poi cinquina) di piloti di Getter Robotic/Combattler V, lo scienziato baffuto, o “padre della tecnica”, a capo della fortezza delle scienze, l’orfano alieno, gli invasori spaziali, l’anagonista bello e tragico di Nagahama e ogni altro archetipo su cui si è costruita l’impalcatura delle robottomono settantine, sono dissezionate e approfondite. Sotto i riflettori sono poste le loro caratteristiche intrinseche, i punti di rottura rispetto al passato, le similitudini con altri lavori, le loro specificità serie per serie, e addirittura il contesto con l’entroterra culturale, non solo del Giappone ma anche dello crew che li ha creati. Tutto questo senza dipendere, attain faccio io, da fonti o approfondimenti ufficiali, ma dalla semplice visione attenta ed entusiasta di queste opere. Il Nacci adora i neat robotic settantini e la sua passione si evince bene. Da pochi dialoghi, episodi isolati o indizi sparsi, ricama cenni ideologici e modi di pensare di chi li ha scritti o diretti, dimostrando chiaramente che tutte produzioni destinate ai bambini giapponesi delle elementari le ha viste fino in fondo, con attenzione, senza saltare le puntate, e tratta ciò che conosce molto bene. È una cosa che personalmente chi scrive non riuscirebbe mai a fare, principalmente per la sua debolezza nel non riuscire ad andare oltre la ripetitività delle gag infantili e degli automatismi tokusatsu di quel periodo.

Per quello che posso pensare sulla questione, ho pochi dubbi sul fatto che il Nacci azzecchi la stragrande maggioranza delle sue analisi. Quasi tutti i suoi ragionamenti filano in modo limpido e coerente e onestamente non mi viene in mente alcun esempio di riflessioni che trovo inesatte. Spesso e volentieri, dimostra una epic conoscenza dell’argomento da rivelare cose magari ovvie, ma passate inosservate e di cui è davvero stupefacente accorgersene quando le scrive chi le conosce così bene. Un esempio? La differenza tra le eroine-comprimario dei robottomono nagaiani e quelle del 1976 (pag. 153).

La mia unica perplessità, attain sempre, può essere sempre e solo nell’ambito di un occidentale che analizza, senza rifarsi a fonti ufficiali, i messaggi di storie di finzione di una cultura distantissima dalla sua, basandosi sulle sue percezioni e, ogni tanto (ma è fortunatamente raro), esprimendo giudizi di valore in queste riflessioni. Non che questi siano errori, ma una semplice filosofia di fondo che non è mia. Penso tuttavia che il complimento più importante che io possa fare al Nacci è di essere riuscito a rendere interessante e stimolante il testo a un lettore attain me, che in generale non sopporta, salvo rare eccezioni, il genere in quel dato periodo storico. Nonostante la sua densità di contenuti (Guida ai neat robotic è scritto in modo tecnico e chirugico, è piacevolmente ricco di contenuti e quindi, per forza di cose, non è una lettura leggera e disimpegnata), l’ho assaporato a fondo. Chi invece apprezza o adora il genere, non vedo motivo per cui non dovrebbe andare a nozze con questo vero e proprio “trattato” del genere, con molta probabilità il primo, riuscito esperimento mai tentato in Italia (e forse non solo) di analizzare così a fondo il mondo dei robotic giganti, giustamente ben recensito dalla critica italiana, anche su testate nazionali.

Io, infine, non posso che tornare a scrivere il mio, col disagio di rivolgerlo a un pubblico che ha adorato Guida ai neat robotic e che pensa di trovare nel mio le stesse cose. Ahimè.