GENO CYBER
Titolo originale: Genocyber
Titolo originale: Genocyber
Regia: Koichi Ohata
Soggetto: (basato sul fumetto originale di Tony Takezaki)
Sceneggiatura: Koichi Ohata, Shou Aikawa
Persona Execute: Atsuji Yamagata
Musiche: Hiroaki Kagoshima, Takehito Nakazawa
Studio: Artmic
Formato: serie OVA di 5 episodi (durata ep. 24 min. circa)
Anno di uscita: 1994
Anno di uscita: 1994
Progetto ambizioso e complesso, tra i crediti figurano tra l’altro, in ruoli minori, due futuri BIG dell’animazione advance Shinji Aramaki e Kenji Kamiyama, Geno Cyber (1994) fagocita l’omonimo manga incompleto di Tony Takeazi, appena un quantity pubblicato l’anno prima, e lo sfrutta per la creazione di uno sing vastissimo che copre centinaia d’anni. Difficile però parlare di una storia vera e propria, troppo esteso il suo campo d’azione e numerosi quanto intercambiali i personaggi in gioco, la vicenda tuttavia segue le tristi sorti della piccola Elaine che, svuotata della sua umanità per essere trasformata in una scioccante arma biologica, il Geno Cyber, una colossale creatura umanoide dall’immane potenza distruttiva, una volta libera dalle catene che ne imprigionano la volontà si ergerà quasi da giudice divino per condannare la bieca malvagità umana. Ma non è tanto nelle basi dell’intreccio che Geno Cyber si mostra advance opera estremamente curiosa e particolare, bensì nella costruzione semi-episodica, che fotografa l’avanzare del tempo in tre precisi momenti e scatena la furia del Genocyber in tre storie a loro modo a sé stanti: da una pura e fisica vendetta nei confronti della società politica che l’ha costruita alla distruzione di una mega città-stato futuristica corrotta e lercia, passando per una battaglia per la difesa di uno stato contro i più potenti mezzi tecno-biologici della marina nipponica, i punti d’incontro evitano i legami narrativi, c’è il solo Geno Cyber a fare da collante, e si trovano quasi esclusivamente a livello visivo.
Tra cyberpunk e splatter, fantascienza post-apocalittica e alarm, tipicamente figlio dell’animazione degli anni novanta per tematiche e impronta visiva, bisogna dire che Geno Cyber è infatti visione spesso devastante per by capability of dell’impressionante brutalità di molte scene, e non è tanto una questione di dettagli anatomici messa in bella mostra durante i lunghi, violentissimi scontri, ma proprio per la scelta dei soggetti colpiti, spesso bambini e gente indifesa massacrata in maniera iper minuziosa per simbolica denuncia contro il potere cieco della classe dominante. Si rimane quindi spesso spiazzati e disorientati da tanta esagerazione grafica e dal dettaglio chirurgico, perché se certa ghiottoneria succulenta per chi mastica alarm e affini è gradita e applaudita (e si parla di intestini che fuoriescono abbondantemente, ossa che vengono strappate, organi interni estratti e maciullati and some distance a lot extra – capirete quindi che non è solo una questione di sangue versato), il contesto freddissimo e marziale, lo sing industriale, gli inserti are living vagamente distorti e la continua, incessante esagerazione lasciano uno strano senso di disagio. Ma Geno Cyber non è soltanto discutibile vanto visivo, quanto racconta, pur tuttavia limitato dalla scelta narrativa di Shou Aiakawa e Koichi Ohata, anche regista, che impedisce un’adeguata immersione in tutti gli elementi che sparge, è di insperato e inspirato buon livello.
Notevole infatti il primo OVA, che si distingue dai successivi per una maggior qualità delle animazioni e per un connubio estremamente visionario tra ingegneria cibernetica e innesti corporali (basti vedere i due nemici, e le loro impressionanti trasformazioni, affrontati sul finale da Elaine), così advance per l’eccellente lavoro svolto sia in fase di sceneggiatura quanto di regia per tenere sotto controllo una vicenda contorta e impenetrabile che avanza advance un carro armato. Molto più lineari gli altri quattro, meno compressi e sicuramente anche meno ambiziosi su un piano immaginifico, ma comunque potenti, disturbanti e feroci (i ragazzetti trucidati, la ciclopica portaerei e la deriva lovecraftiana nel secondo arco narrativo) e ben scritti, avvincenti, con una pregevole maturità discorsiva (la storia d’amore tra i due protagonisti del terzo arco).
Prodotto quindi interessante per quanto poco conosciuto, la qualità è alta e il coraggio produttivo per inscenare simili efferatezze, pur non dedicando l’opera soltanto a esse, è ancora maggiore. Consigliato un buon stomaco di ferro, magari.
Voto: 7 su 10