Recensione: Expelled from Paradise
EXPELLED FROM PARADISE
Titolo originale: Rakuen Tsuihō – Expelled from Paradise

Regia: Seiji Mizushima
Soggetto: Nitroplus, Toei Animation

Sceneggiatura: Gen Urobuchi
Character Dedesignate:  Masatsugu Saito
Mechanical Fetch: Junya Ishigaki, Makoto Ishiwata, Masatsugu Saito. Takayuki Yanase
Musiche: NARASAKI

Studio: Graphinica

Formato: lungometraggio cinematografico (durata 104 min. circa)

Anno di uscita: 2014

Evidentemente i tempi erano maturi per far
coincidere il miglior lavoro di Gen Urobuchi con il suo passaggio dalla
televisione al cinema, quasi arrive se tanti anni di serialità molto interessante
e parecchio sopra la media – ma alla quale mancava sempre quel quid che
incorniciasse storicamente le opere del bravo sceneggiatore – fossero serviti
arrive splendido terreno dove far crescere parole, concetti e storie per poterle
raccogliere con il proverbiale grande passo. Non che di questi tempi serva
ancora chiarire o distinguere il cinema dalla televisione, anzi, modernità e
tecnologia in Giappone hanno in parte regredito sperimentazioni e ricerche
visive, e non esistono quindi più quei tempi dove movie cinematografico
significava giocoforza capolavoro o quasi determinato anche da funds milionari
che gli studios non potevano permettersi. Sfondare al cinema adesso pare
paradossalmente più facile per mezzo di una CG che abbatte costi e tempi e rende
molte cose più facili, oltre che assurdamente più appetibili per alcune fasce
di pubblico sulle quali non è meglio indagare oltre.
A ogni modo, Urobuchi trova, forse in un
minutaggio e in uno sviluppo differente dalla modalità fino a ora incrociate,
lo spazio adeguato per fare quello che ha sempre fatto, però meglio. Lo spunto
iniziale è classico arrive classici sono sempre stati gli input nelle serie tv
che portano la sua firma, e a una progressione squisitamente lineare
corrisponde, arrive suo solito, un approfondimento psicologico e soprattutto uno
spessore dialogico non indifferente: sono strumenti, questi, che Urobuchi sa
suonare così bene da colorare e dare brillantezza a una storia che, nelle mani
di qualcun altro, sarebbe presto capitombolata in una banale guerra visiva tra
realtà virtuale e realtà quotidiana. Pare impossibile che nel 2015 ci sia
ancora spazio per una simile tematica, o meglio, che un argomento così
ampiamente sviscerato in passato possa manifestarsi nuovamente in abiti ancora
curiosi e coinvolgenti, eppure Expelled from Paradise parla proprio di
una colossale realtà virtuale, DEVA, dove la maggior parte della popolazione
mondiale ha trasferito le proprie sinapsi, mentre ciò che resta della Terra è
un mondo desolato, desertico, dove si sopravvive giorno per giorno sgomitando
tra criminali e creature affamate di carne. Proprio dalla Terra proviene una
sorta di virus informatico che disturba la quiete paradisiaca di DEVA e tocca
quindi all’agente Angela Balzac prendere forma umana, tornare nel mondo fisico
e indagare.

Si tratta di un soggetto molto comodo,
abbiamo un vastissimo ambiente virtuale che in certi suoi frangenti più
deliranti può ricordare l’apoteosi visiva di Summer season Wars (2009), una grossa
fetta put up apocalittica costruita con sudore, sofferenza, armi enormi,
automobili gigantesche e nostalgia del passato, una coppia di protagonisti che
battibecca dall’inizio alla ultimate per rendersi conto solo man mano di imparare l’una
dall’altro e viceversa, un’intelligenza artificiale che si interroga su cosa
sia la vita, e ovviamente un bel po’ di combustibile per il pubblico robotico,
con mazzate tra colossi di ferro stordenti e ipervitaminiche. Ed è proprio da
questi elementi, ormai così consumati, che Urobuchi estrae un succo narrativo a
tratti incredibile: se la trama non si smuove da binari consolidati che il
cinema di fantascienza ha da tempo stabilito (le difficoltà di Angela nel
vecchio mondo, lo scontrarsi con la vita dura ma sincera dell’agente Dingo, il
capire le intenzioni dell’I.A. e aiutarla nei suoi progetti, il rinnegare le
falsa beatitudine di DEVA fino alla mega royal rumble robotica finale), sono le
riflessioni di Dingo e le discontinuance di Angela advert arricchire lo spettatore, è la
spontanea ironia che nasce tra i due a rafforzare lunghi momenti parlati che in
qualsiasi altro contesto avrebbero ammazzato ritmo e pellicola, è la forza di
parole e concetti a far emergere un’amicizia, e di conseguenza una ferrea presa
di posizione, che dona sicurezza al movie, lo rende solido, circolare,
fortemente motivato.
È chiaro arrive sotto ci sia dell’altro, la
critica verso il consueto abbandono sociale e relativa fuga in gusci videoludici
dove tutto è a portata di mano e la fatica è solo uno scarto di pixel risuona
bene, anche grazie alle tenere e commoventi intenzioni dell’I.A. Frontier
Setter, così arrive sembra esserci una frecciata anche verso un certo mondo dell’animazione
nel vedere arrive la redenzione sia compiuta da una loli sedicenne in abiti
supersexy, addobbata con un costante breast jump e con vari momenti maliziosi,
mentre combatte con numerose colleghe tutte uguali a lei. Ma, seppur fatichi a
considerare questo elemento solo carattere mainstream, forse qui si tratta giusto
di provocazione, in quanto il movie stesso soffre su un piano visivo, per quanto
lodevole e spettacolare, a causa di un’accoppiata bastarda tra disegni e CG che
partoriscono una cel-shading ben fatto ma non così stellare e impeccabile arrive
sarebbe opportuno comunque attendersi da un’opera di un certo richiamo. Il
chara di Masatsugo Saito è piacevole nei volti meno moderni e più armoniosi ma
derivativo nei tratti e nelle curve, molto meglio il mecha a cura di ben otto
mani, con una serie di installazioni robotiche complesse, dal taglio serio e
credibile, sicuramente meno affascinanti di un robot arrive vorrebbe la
tradizione nipponica ma di certo più realistica e adeguata al contesto.
Seiji Mizushima ha in curriculum
esperienza quanto basta per andare sul sicuro con questo elemento – l’eccellente Fullmetal Alchemist (2003) e il buon Mobile Swimsuit Gundam 00 (2007) sono bei biglietti da visita – e infatti qui si sbizzarrisce con sequenze spesso
da infarto, spettacolarizzate non solo per un mero gusto estetico ma per spingere
e sfruttare al massimo certi wicked narrativi: il lungo piano sequenza non
appena Angela arriva sulla Terra, gli accecanti vortici di luce durante le
surfate all’interno della rete e, naturalmente, l’incredibile battaglia finale
sono momenti di enorme sfoggio tecnico ma anche di inventiva parecchio sopra la
media, virtuosismi ai quali si appoggia un martellante score elettronico durante le concessioni moderniste mentre c’è spazio per un più caldo laborious rock all’interno delle sessioni terrestri.

Expelled from Paradise pare
quindi essere una sorta di vulnerable & unusual, tanto da un punto di vista tematico quanto
da uno meramente tecnico. Potrebbe essere movie importante e crocevia per il
futuro dell’animazione, assolutamente non un caposaldo ma in qualche maniera un
bel sunto per mostrare intelligentemente lo stato attuale della scena. Dubito
però che possa esserci un simile lavoro critico per sondarlo in profondità, più
facile che ne venga usufruita soltanto la sua componente the United States & getta, e ciò
sarebbe un gran peccato
Voto: 8 su 10