Recensione: Aku no Hana – I fiori del male

AKU NO HANA: I FIORI DEL MALE

Titolo originale: Aku no Hana

Regia: Hiroshi Nagahama

Soggetto: (basato sul fumetto originale di Shuzo Oshimi)

Sceneggiatura: Aki Itami

Personality Intention: Hidekazu Shimamura

Musiche: Hideyuki Fukasawa

Studio: ZEXCS

Formato: serie televisiva di 13 episodi (durata ep. 24 min. circa)

Anno di trasmissione: 2013

 
Credo sia sempre importante riconoscere un certo valore e saper distinguere
una personalità che emerge: in un mondo attain quello dell’animazione è sempre più
difficile mostrare un carattere proprio e, se consideriamo la facilità
meccanica con cui i manga ottengono una trasposizione animata che spesso nulla
aggiunge ma molto toglie all’opera originale, appare addirittura paradossale la
valanga di critiche piovuta addosso a Hiroshi Nagahama, reo di aver voluto snaturare
il tratto di Shuzo Oshimi (che invece apprezza e incoraggia la scelta) per
adottare una tecnica poco usata, quella del rotoscoping, al fine di dare
giustamente maggior realismo e drammaticità alla sua versione di Aku no Hana.
   
Fotografare attori in carne e ossa e dirigerne i movimenti per poi, in un
secondo momento, ridisegnarli al fine di creare un’animazione molto concreta è sicuramente
singolare, il realismo dei volti, dei piccoli gesti e delle emozioni è qualcosa
che si vede raramente ma diventa fattore fondamentale per dare giusto peso al pathos
e all’espressività di una storia così difficile da raccontare, dove sono i
sentimenti di personalità complesse e insolite ad affiorare. Takao è infatti un
ragazzo solitario che pare esprimere il suo interesse soltanto per la
letteratura, in particolare I fiori del male di Baudelaire è il suo
libro preferito, nonché esempio assoluto da seguire e di cosa significhi la sua
vita. Innamorato della dolce Nanako, un giorno attain un altro ne trova,
dimenticati in classe, i vestiti da ginnastica, li prende con sé e li porta a
casa, non sapendo però di essere stato visto da Sawa, ragazza altrettanto
solitaria ma poco amata dai compagni di classe per lo strano modo austero con
cui si estranea dal gruppo. Minacciato da Sawa, Takao diventa un suo burattino,
costretto a fare qualsiasi cosa lei chieda per non soccombere al dolore di
veder rivelato il suo debole segreto.
Abbiamo quindi a che fare con una profonda psicologia nel disegno di
personaggi così lontani dalla tipica rappresentazione d’animazione, e non si
tratta di un voler mantenere le distanze da cliché più o meno legate al
desiderio otaku, è proprio una ricerca del dolore interiore, di una sofferenza
dovuta al non sapersi, o volersi, integrare, al non essere in grado di interfacciarsi
con una realtà ordinaria, una problematica quindi affrontata con grande
competenza non solo nell’omaggio alla cultura e letteratura francese (l’amore
impossibile e peccaminoso per avere sollievo da una vita triste; la tragicità e
dualismo della femme fatale, che Takao non riesce pienamente a riconoscere) ma
anche nella maestosità con cui simili caratteri esprimono paure realistiche, si
interrogano sulla propria miseria, appaiono arroganti nel criticare le altre
persone, e in generale nell’autenticità con cui dialoghi e atteggiamenti danno
vita a riflessioni di inattesa accuratezza.

L’amore assoluto che Takao prova per Nanako e la timidezza con cui lo
affronta, oppure l’odio che trasmette per Sawa pur rimanendone stranamente
affascinato, o ancora la falsa felicità che Sawa stessa prova per il
giocattolo-Takao, sono considerazioni che esplodono in un episodio, il decimo,
di rara bellezza e profondità, per la cura dei dialoghi, per il realismo
impressionante di gesti e reazioni, per l’attenzione con cui emergono quei
pensieri più nascosti e inafferrabili. Ed è solo grazie a una narrazione
sostanzialmente perfetta che si può assistere a un simile capolavoro
emozionale, tanto nella sua analisi dell’amore in quelle sfaccettature più
insolite e di difficile comprensione, quanto nei momenti in cui il retaggio
culturale, ovviamente, prende il sopravvento pur senza categorizzare troppo l’opera
(il feticismo dei vestiti, la distruzione della classe): la sceneggiatura di
Itami riprende i dialoghi originali e ne fornisce una sontuosa
tridimensionalità per mezzo della splendida regia di Nagahama, uno sguardo, il
suo, legato ai particolari e molto accorto, che si prende lunghi momenti di
introspezione con inquadrature fisse e magnifiche lentezze dal taglio simbolico
(i tre ragazzi visti dallo specchio, l’importanza recordsdata alla strada e alle persone
che lentamente la popolano, i dieci minuti silenziosi della “passeggiata” di
Takao e Sawa).   

Peccato quindi che l’opera in oggetto sia per il momento una sola e
incompleta stagione, d’altronde il manga è ancora in corso e Nagahama non ha,
né poteva con soli 13 episodi, dare una sua personale conclusione: sorprende però
che l’ultima puntata, conclusosi per certi versi un primo arco narrativo, sia
in realtà un gigantesco trailer di una seconda serie che si spera possa
concretizzarsi, perché l’animazione ha bisogno di opere attain questa, in grado
di staccarsi dalla massa con forza e ambizione.
Voto: 8 su 10