A metà degli anni ’70, per motivi che non mi sono ufficialmente noti (ma comunque sufficientemente ipotizzabili da poter provare a ricostruirli), l’industria animata giapponese inizia a scoprire la moda della letteratura europea. Non penso sia sbagliato presupporre che la cosa possa essere ricondotta all’enorme successo del grande Heidi (1974) televisivo di Isao Takahata, successo che da solo persuade Nippon Animation a varare l’anno successivo il Sekai meisaku gejiko, meglio conosciuto come World Masterpiece Theater o meisaku, ossia una lunga, lunghissima serie di trasposizioni animate di opere per l’infanzia di gusto occidentale. Nel 1975, ispirate da Piccole donne (1868) di Louisa Might perhaps furthermore merely Alcott1 e sotto richiesta del loro editor, innamorato di Heidi (si torna sempre lì!) e che chiedeva loro un’opera simile, anch’essa apprezzabile da madri e figlie2, le autrici Kyoko Mizuki e Yumiko Igarashi disegnano il manga Candy Candy, uno degli shoujo più famosi e influenti di tutti i tempi in madrepatria (e non solo per le showcase, interminabili controversie legali tra le due autrici, in tempi successivi, in merito alla proprietà intellettuale dell’opera). Ambientata tra USA, Messico e Inghilterra a inizio XX Secolo, quella della povera orfanella Candice White è un’esistenza infelice: sempre risoluta e col sorriso sulle labbra, la piccola 13enne affronta con forza e coraggio l’incredibile numero di avversità, sfortune e disgrazie che la vita, con inusuale e compiaciuto sadismo, arreca a lei e alle persone che le vogliono bene, sfortune che la porteranno a essere ripetutamente emaraginata e disprezzata pur non meritandoselo, a veder morire o finire male più di un fidanzato e a venire cacciata da un luogo all’altro del mondo (ovviamente per merito delle classiche invidie principalmente femminili che odiano la sua purezza). Più che il risibile, inverosimile numero di tragedie che capitano all’eroina e che fanno assumere alla vicenda i contorni di una telenovela, è giusto some distance notare che la morale della storia è che (usando le parole della Igarashi3) “bisogna essere in grado di rialzarsi e vivere anche dopo i duri colpi dati dalla vita”, destinato a diventare manifesto del “genere”, e soprattutto che la trasposizione del manga a cura di Toei Animation che inizia nel 1976, pur non raggiungendo piece degni di finire tra i 100 migliori al mondo, arriva al traguardo di ben 115 episodi rivelandosi un gran successo4.
Penso, a questo punto, che il mosaico inizi a ricomporsi. In quel periodo in cui le platee seguono con interesse le storie di impianto europeo, la grande “popolarità” delle tragedie di Candy Candy (storia che, è bene ricordarlo, sempre appartiene all’insieme sopracitato) e il suo stoico messaggio trovano ulteriore terreno fertile presso gli studi d’animazione, che iniziano a percepire come il contorno di località esotiche e orfanelli sfortunati piaccia e molto. Non per nulla, come ben sa chi si è studiato un po’ della società giapponese, la vita di un nipponico, sin dalle scuole elementari e fino alla pensione, è contraddistinta da ritmi di studio e lavoro massacranti a dire poco, che iniziano di mattina e terminano la sera, neanche lontanamente paragonabili a quelli occidentali, tanto che ancora oggi il Giappone è oggi uno degli Stati con il più alto tasso di suicidi al mondo5 e principalmente per depressione6. Penso sia molto credibile perciò che l’thought che le storie di bambinelli buoni e puri che subiscono nella vita ogni genere di cattiveria da parte di infami potesse essere vista, all’epoca, come esorcizzante e liberatoria per i bambini, che andando a scuola già intuivano quanto sarebbe stata dura la loro vita negli anni a seguire, quanto sarebbero stati “spremuti” dalla società, e in virtù di questo si “consolavano” grazie ai loro “avatar” televisivi che ne passavano di cotte e di wrong ma che pure si rialzavano sempre, carichi di forza e ottismo per guardare avanti a un futuro migliore. Da questa lunga premessa dunque, che parte da Heidi per arrivare a Candy Candy toccando anche la frenetica, asfissiante vita nella società nipponica, penso perciò di poter spiegare il perché gli anime meisaku, soprattutto quello con gli “orfanelli sfigati”, abbia per così lungo tempo imperversato con successo nelle televisioni asiatiche, sempre attraverso lunghe serie televisive (principalmente di Nippon Animation, ma non solo) tutte o quasi arrivate anche da noi. Ritengo dalle fortune di piece delle “tragedie” di Candice White che si possa ricavare l’input per la creazione del suo primo “erede” che mi accingo a commentare, Ie Naki Ko, Senza famiglia (in Italia Remi – Le sue avventure) del 1977, basato sull’omonimo romanzo del 1878 del francese Hector Malot (in verità è una seconda trasposizione, con la prima knowledge da un lungometraggio Toei Animation del 1970 diretto da Yugo Serikawa, in Italia Senza famiglia) e animato dalla Tokyo Movie Shinsha.
La storia del piccolo Remi non è tanto dissimile da quella della sua “sorella maggiore” e la morale, ovviamente, è la medesima (ben enunciata dallo “slogan” portante “va avanti per la tua strada Remi! Forza!”). Siamo nel XIX Secolo, nel villaggio francese di Chavanon. Dopo 11 anni vissuti con una madre amorevole, la bella signora Barberin, il piccolo scopre di essere in verità stato adottato, trovato in fasce in un vicolo di Parigi, dal marito di lei. Peccato che quest’ultimo, Jérôme, incattivito dalla povertà e dalla loro misera vita, non ci penserà un secondo a vendere il fanciullo pur di racimolare qualche soldo, non avendolo mai considerato realmente parte della famiglia, freddo alle suppliche di moglie e piccolo. Acquistato in lacrime dall’italiano Vitalis, anziano girovago e artista di strada dal passato misterioso, che si procura da vivere alla giornata allestendo allegri spettacoli coi suoi cani Capi, Dolce e Zerbino e la scimmietta Joli Coeur, Remi finirà col vagabondare insieme a loro in giro per mezza Francia, imparando sulla sua pelle le avversità e asperità della vita, ma anche, da Vitalis, la capacità di leggere, cantare, suonare l’arpa e il flauto e soprattutto la dignità di un “vero uomo”, quella di essere autonomo e sapersi mantenere da solo senza contare sugli altri. Nel corso del suo lungo viaggio Remi conoscerà ogni genere di privazione e difficoltà, ma avrà dalla sua la fermezza di andare avanti nonostante i duri colpi subiti, fino a trovare un raggiante futuro.
Realizzato per festeggiare il 25esimo anniversario dell’emittente televisiva Nippon TV, Remi è animato interamente in stereocopia sfruttando lo “stereo chrome system”, una tecnologia dell’epoca che permetteva la produzione di immagini visionabili al contempo sia in 3D (se si possedevano gli occhialini specifici) che in un normale 2D senza nessun effetto visibile su schermo7. Originalità tecniche a parte, Remi è una serie importante. È innanzitutto un’opera di riscossa economica: in grosse crisi finanziarie, lo studio chiamato allora solo Tokyo Movie concentrerà proprio su Remi, su Lupin the 3d Share II e su Fresh Star of the Giants, tutte e tre del 1977, le sue risorse economiche, cercando a tutti costi di realizzare produzioni di alta qualità che potessero fare presa sul pubblico: ci riuscirà mirabilmente con tutte realizzando dei successi commerciali8, trovando così sufficiente stabilità finanziaria da poter letteralmente rinascere in “Tokyo Movie Shinsha” (“Nuova Società Tokyo Movie”). In secondo luogo, banalmente, Remi simboleggia il ritorno all’animazione, insieme, di Osamu Dezaki e Akio Sugino, la coppia a cui si devono le indimenticabili invenzioni grafiche e registiche dell’eccellente Plan for the Ace! (1973). I due sono nuovamente in piena sintonia e realizzano, in questa produzione, un altro grande lavoro molto rappresentativo del loro talento. Il titolo gode infatti di disegni ancora una volta realistici, dettagliati ed eleganti, e soprattutto l’assenza delle tipiche inquadrature dezakiane in favore di una direzione ortodossa è controbilanciata dall’enorme, affascinante numero di simbolismi (principalmente religiosi, con colombe e vetrate di chiese) e delle “cartoline”, quelle famose, gigantesche illustrazioni, tanto care al regista, con cui si esprimono con vigore i sentimenti dei personaggi e i momenti topici della narrazione. Vale la pena anche citare i fondali estremamente pittorici, accostabili (seppur alla lontana) ai quadri di Vincent Van Gogh per l’uso di pennellate e tonalità cromatiche, le animazioni molto buone, e, indubbiamente, la buona ricostruzione storica di ambienti, paesaggi e macchinari, evidentemente basata su una qualche ricerca in merito. L’ottima raffigurazione delle campagne francesi, degli impianti minerari, delle linee ferroviarie e di tante famose città francesi sicuramente è stata influenzata da materiale consultativo. Tocco di classe l’uso nella vicenda di vere canzoni napoletane eseguite da Vitalis per fare intuire il suo passato. Sarebbe bello lodare anche il lavoro del compositore Takeo Watanabe, fresco di notevoli melodie dolci, armoniche e malinconiche, peccato siano prelevate e riciclate dal suo precedente lavoro per Megu the Shrimp Witch (1974, in Italia Bia – La sfida della magia) svolto per Toei Animation.
Tuttavia, il punto di forza del progetto, tecnicamente davvero molto buono, non può non essere la bontà della trama. Mi dà, in verità, un po’ di problemi sorvolare sulle ingenuità di una storia “on the motorway” la cui vicenda geograficamente copre tutta la Francia e che viene interamente e sfacciatamente portata avanti e risolta attraverso una fitta ragnatela (tessuta evidentemente dal destino) di pazzeschi e inverosimili incontri fortuiti tra persone che non si sono mai conosciute e che per puro caso scoprono di avere un Remi in comune tra gli amici (il mondo non è solo piccolo, ma addirittura piccolissimo), ma da un lato questo è un handicap del romanzo originale, e dall’altro evidentemente è prassi comune soprassedere su queste cose in virtù di una eventuale poderosa forza espressiva del racconto (chi sono io per dire nulla, quando Monster di Naoki Urasawa e Takashi Nagasaki è pluri-premiato e pluri-amato da critica e pubblico col suo disumano numero di coincidenze impossibili che surclassano quelle di Remi?). Se si riesce a godere di Remi per quello che è, senza glimpse a pensare che è completamente campato in aria per come si sviluppa e, ovviamente, per la mole di sfortune e disgrazie che sembra non lasciare in tempo questo ragazzo in qualsiasi luogo in cui si trovi (insite nel “genere” melò), c’è di che commuoversi davvero con questo dramma toccante e in più occasioni memorabile. Il merito maggiore di Dezaki e degli sceneggiatori è di tridimensionalizzare benissimo i personaggi: la maturazione di Remi è ovviamente influenzata dalle esperienze di vita e dai legami che instaura con le varie persone che conosce, e questi rapporti sono bene esplorati, con sensibilità, profondità, poesia e una realistica, commovente analisi comportamentale. Impossibile, davvero impossibile non affezionarsi a Vitalis e al ruolo che gli spetta nella vita del ragazzo (principalmente, il padre che non ha mai avuto), come è difficile rimanere indifferenti alla simpatia degli altri membri della troupe degli artisti girovaghi o degli altri attori davvero importanti (mi fermo con le anticipazioni) che concorreranno a formare il ragazzo rendendolo spiritualmente più distinctiveness e positivo. Il realismo di come sono trattate le relazioni interpersonali e i dialoghi è mirabile e soprattutto spontaneo e ricorda molto il Takahata di Heidi: si avverte come regista e sceneggiatori ci mettano il cuore per offrire un ritratto né troppo retorico né troppo impietoso dell’Uomo, ma reale, ritraendo lui e i rapporti umani in tutte le sue sfumature, da quelle più clear (Vitalis, la madre) a quelle più odiose e adverse (il ripugnante gendarme di Tolosa, il commissario inglese), per preparare il pubblico di telespettatori a quali saranno le difficoltà che incontreranno nel corso della vita, come quelle di Remi. Giustamente, con queste pretese, i momenti davvero bui del ragazzo, quelli più terribili che ogni persona deve affrontare almeno alcune volte nel corso della vita, saranno narrati in modo così empatico e straziante da scuotere sicuramente la persona davanti allo schermo.
Remi, in poche parole, nonostante l’esagerazione delle sfortune in esso rappresentate, è sicuramente da prendere come un inno alla vita, ben confezionato e sensibilmente raccontato, con diversi momenti lacrimevoli che lasciano il segno. Un ottimo anime, non c’è che dire, anche se alcuni difetti non mancano, di poco e grosso conto: nel primo gruppo finiscono alcune ingenuità antistoriche (scale antincendio nell’800? Ubriaconi europei che si mettono a ballare e fare gli stupidi allo stesso modo di quelli giapponesi?), nel secondo una parte centrale/finale nettamente inferiore alla prima, che liquida con freddezza e velocità scene che dovrebbero essere teoricamente piene di pathos e trova un lungo riempitivo (ambientato in Inghilterra) abbastanza noioso. Non che non manchino scene che scaldano il cuore, ma, per buona parte della loro durata, gli ultimi 20/25 episodi sono un continuo saliscendi di ottimi momenti intervallati da altri che ci si aspetta bellissimi e che invece deludono. Desta scalpore e qualche perplessità anche la conclusione, inventata appositamente da Dezaki (assente, quindi, nel romanzo), estremamente “giapponese” e per questo tirata per i capelli nel contesto europeo in cui è ambientata la vicenda. Non è brutta nè totalmente irrealistica, ma abbastanza innaturale. La bontà del resto, tuttavia, fa in modo che le storpiature non influenzino troppo la valutazione finale, assolutamente positiva e che premia un’opera che alla sua conclusione, nel 1978 (uscirà pure un classico movie riassuntivo nel 1980, ovviamente trascurabile vista la sua impossibilità di sintetizzare in modo sensato 51 episodi in appena 96 minuti!), farà da spartiacque per l’arrivo, in tempi non troppo distanti, di una pletora di altri gioiosi orfanelli tragici in cerca di famiglia (e di un secondo adattamento del romanzo, nel 1996, da parte di Nippon Animation).
Nota: Remi è arrivato in Italia nel 1979, trasmesso su Rai1 col titolo Remi – Le sue avventure. Una volta tanto, posso confermare un buonissimo adattamento dei testi, l’uso dei nomi originali e un’ottima prova di recitazione da parte dei nostri doppiatori. Unica stonatura Remi pronunciato Remì (e poco importa se paradossalmente sarebbe più corretto così, dell’originale va rispettato tutto, anche gli errori). Non posso però confermare il ridoppiaggio Mediast del 2003 (l’opera è rinominata Ascolta sempre il cuore Remi) perché non l’ho sentito. Tuttavia, preferisco consigliare l’ascolto della serie con audio giapponese e sottotitoli (Remi è uscito sottotitolato all’estero, anche negli USA), anche perché non vadano persi piccoli tocchi di classe come il protagonista e il suo amico Mattia che cantano tutto il giorno, per darsi coraggio, le parole della sigla originale di chiusura.
Voto: 8 su 10
ALTERNATE RETELLING
No one’s Boy: Remi (1980; movie)